come una testuggine che non corre pericolo di estinguersi. (Tortoise, Roma 25/11/2009)

7 dicembre 2009 § 1 Commento

Tanto vale confessarlo subito: i Tortoise li avevamo abbandonati quasi subito dopo il disco capolavoro tnt, ché troppo perfetto era quel disco per poter rimanere stupiti ancora una volta dai medesimi. All’epoca quella era stata davvero la musica che ci aveva traghettato verso la maturità degli ascolti (eccoci qui, siamo davvero diventati grandi: quel viaggio attraverso tutta l’Italia per il nostro primo festival accompagnati da quelle “canzoni” così strane ce lo ricordiamo ancora), quello era un disco dove convivevano elettronica, fusion, rock, progressive, indie, insomma, di tutto un po’.

Un suono che andava oltre il rock e che appunto proprio per questo venne, e viene, definito post-rock; alcuni parlarono, e parlano, anche di neo-prog e non proprio del tutto a torto, come si vedrà in seguito. Quel disco, con la sua copertina così naif, funzionò davvero da spartiacque (solo per noi?), sia per un certo tipo di musica, che per gli stessi Tortoise: cioè, avrebbero mai potuto far di meglio?

Non conosciamo benissimo i dischi successivi della Tartaruga di Chicago eppure, avvertendo per loro una sorta di caduta nel dimenticatoio, non sembra che i Tortoise, tra post-punk e nu-rave vario, siano rimasti propriamente sulla cresta dell’onda (in effetti, senza contare il disco insieme a Bonnie “Prince” Billy mancavano dalle scene da circa cinque anni). Il disco successivo al capolavoro dinamitardo lo chiamarono Standards, come a voler auto-concedersi una sorta di classicità, lo sentimmo ma non ci provocò lo stesso sconvolgimento del disco con la copertina a righe. Allora lì vedemmo (già) live, in uno di quei festival dove il palco è enorme, e la distanza emotiva troppa. Ovviamente gran musicisti, sì, ma quella serata di fine settembre fu anche piuttosto fredda.

Ascolti distratti (mea culpa) degli album dopo appunto (ci) confermarono che il gruppo s’era un po’ perso per strada (ma cos’è questo… uhm… hard rock?).

E allora perché tornare a rivederli dal vivo?

Be’, detto chiaramente: non ci si aspettava che questo nuovo Tortoise, Beacons Of Ancestorship, fosse così dannatamente bello. Echi e riverberi dell’abbagliante disco bianco che fu addirittura: davvero, certi suoni sembrano, anzi sono, proprio quelli.

E così eccoci qui, tornati sotto al palco (dove si intravede anche qualche quarantenne, il che è piuttosto confortante: esiste ancora qualche vero appassionato!), per vederla ancora una volta, la nostra massiccia tartaruga americana.

La doppia batteria montata sul palco è una dichiarazione di intenti, e certo non è un caso che le due batterie della nostra macchina fotografica decidano di fare i capricci proprio oggi: questa è musica da godersi senza distrazioni.

La dichiarazione che (ci) fanno i Tortoise è questa: la nostra musica è ritmo, groove (ma c’è groove e groove, attenzione), “noi siamo/facciamo batteria”: compatti, lucidi, potenti. Non si ispireranno alla tartaruga così per caso, no?

Certo poi ci sono la marimba, lo xilofono, le tastiere, la chitarra, il basso, ma tutto questo sembra contorno (ma che contorno, cacchiarola!), quello che risalta definitivamente all’orecchio è soprattutto l’incredibile ritmo in cui riescono a portarti questi cinque gran musicisti americani (i cui tatuaggi e il continuo passare da uno strumento all’altro la dicono lunga su quanto tempo è che stanno nell’ambiente musicale, no?).

Prima si parlava di neo-prog, e non a caso, infatti la prima impressione, dopo qualche pezzo, è proprio quella: una sorta di ritorno agli anni ’70 dove la fanno da padrone ritmi complessi e precisi, e laghi di tastiere/synth reiterati ed evocativi. Poi certo si ritorna in anni più recenti e tra i pezzi nuovi si inseriscono, come volevasi dimostrare, anche pezzi dal disco di cui si è (stra)parlato fino adesso, e la musica diventa (anche) una sorta di fusion, ovviamente nel senso buono del termine. Forse si sente meno “elettronica”, ma giusto perché la dichiarazione di intenti dei Tortoise è quella di cui sopra: noi abbiamo e suoniamo strumenti veri, e passiamo dall’uno all’altro senza alcun problema. Le magliette sudate alla fine del concerto stanno lì a dimostrarlo.

Ma davvero tra accelerate rock, scomposizioni fusion, atmosfere prog, strutture indie, e ritmi elettronici, in un frenetico e sorridente (questi qui si divertono veramente quando suonano, altro che ventenni depressi!) crescendo appassionato che conosce pausa solo per qualche inconveniente tecnico, non si saprebbe proprio come precisamente definirla, alfine, questa incredibile musica di cui abbiamo goduto in quest’ora e mezza… che dite, la chiamiamo solo Musica e basta?

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