ripetizione.

22 aprile 2024 § Lascia un commento

«Per me l’atto più importante della tragedia è il sesto: il risorgere dalle battaglie della scena, l’aggiustare le parrucche, le vesti, l’estrarre il coltello dal petto, il togliere il cappio dal collo, l’allinearsi tra i vivi con la faccia al pubblico».
(Wisława Szymborska, poetessa)

Un uomo viene ucciso, in modo efferato, dalla notte dei tempi non è raro che accada: si tratta di omicidio, dietro ci possono essere svariate ragioni, omofobia, per esempio, ma l’assassino può uccidere anche per rabbia, per noia, per paura, forse anche per passione, addirittura per disperazione: il risultato non cambia, la morte. I morti non parlano più, ma ascoltano quello che viene detto, guardano ciò che accade, almeno fino a poco prima che la vita non scompaia definitivamente. Come raccontare tutto questo, come può la realtà essere rappresentata sulla scena?

Si tratta di cronaca nera, oggi si chiama così, delitti di cui sono i pieni i giornali, i telegiornali, i podcast. In passato era tragedia e il teatro se ne appropriava per il proprio racconto: qualcuno moriva e il pubblico cominciava a chiedersi perché, il drammaturgo cominciava a indagarne le cause: chi è stato? gli dei si sono adirati? l’amante è stato tradito? il re ha rubato? Dalla notte dei tempi, l’uomo non cambia, continua a uccidere, e sempre per le stesse ragioni: amore, potere, follia.

La forza dello spettacolo di Milo Rau, potente e profondo, sta nel prendere il presente e raccontarlo attraverso mezzi e modi che si rifanno al passato lontano di un teatro classico, ma allo stesso tempo questi mezzi e modi vengono proiettati prepotentemente nel futuro, attraverso moderne soluzioni sceniche e soprattutto attraverso l’uso della ripresa video in diretta (ma non sempre) che amplifica ed espande il racconto aggiungendo un ulteriore strato di ambiguità alla realtà già di per sé incerta.

Uno spettacolo che vuole raccontare la storia del teatro mostrando allo spettatore proprio il metodo attraverso cui viene costruito e si costruisce, la ripetizione che diventa video ma anche rievocazione continua di ciò che è accaduto attraverso le repliche. Gli attori sono già in scena, ma non sono ancora personaggi: quando è che lo diventano? C’è ancora il casting da affrontare, cosa è disposto a fare un attore in uno spettacolo? Si spoglierà nudo, picchierà, ucciderà? Sarà capace di attraversare i cinque atti canonici per arrivare a quello più difficile e tremendo, il sesto, quando occhi negli occhi con lo spettatore si chiederà cosa è successo? Ma soprattutto, lo spettatore che assiste alla sua morte sarà capace di salvarlo, o si limiterà a un pilatesco applauso?

Raccontandoci come funziona il teatro, Milo Rau crea una tensione continua tra realtà e finzione, un dialogo che moltiplica piani e significati, spesso spingendo lo spettatore a chiedersi cosa stia vedendo: è reale? è una ripresa vera? sta recitando, o no? La nebbia si spande sul palco, un personaggio canta una struggente e disperata canzone d’amore, un’auto piomba nel buio, dei fari ci accecano, la violenza si scatena nella morte: ecco, lo spettacolo è fatto. La solitudine dei vivi, il dolore altrui, la banalità del male, l’anatomia di un crimine, un coniglio: cinque atti, e poi? Un cappio scende dall’alto, un uomo si uccide o viene ucciso: lo spettatore si limita a guardare, ma cosa siamo poi disposti a fare in quanto esseri umani?  

THE REPETITION
HISTOIRE(S) DU THÉÂTRE (I)
ideazione, testo e regia Milo Rau
con i performer Sara De Bosschere/Kristien de Proost, Suzy Cocco, Sébastien Foucault, Fabian Leenders, Johan Leysen/Sabri Saad El Hamus, Tom Adjibi/Adil Laboudi
ricerca e drammaturgia Eva-Maria Bertschy
collaborazione alla drammaturgia Stefan Bläske, Carmen Hornbostel
scenografia e costumi Anton Lukas
video Maxime Jennes, Dimitri Petrovic
luci Jurgen Kolb
assistente alla regia Carmen Hornbostel
assistente alla drammaturgia François Pacco
foto di scena Hubert Amiel
produzione International Institute of Political Murder (IIPM), Création Studio Théâtre National Wallonie-Bruxelles sostenuti da il Fondo Culturale della Capitale di Berlino, Pro Helvetia, Fondazione Ernst Göhner e Kulturförderung Kanton St. Gallen
in coproduzione con Kunstenfestivaldesarts, NTGent, Théâtre Vidy-Lausanne, Théâtre Nanterre-Amandiers, Tandem Scène Nationale Arras Douai, Schaubühne am Lehniner Platz Berlin, Théâtre de Liège, Münchner Kammerspiele, Künstlerhaus Mousonturm Frankfurt a. M., Theater Chur, Gessnerallee Zürich, Romaeuropa Festival con il supporto di ESACT Liège

rené·e.

20 marzo 2024 § Lascia un commento

«Quando la scuola è nella riserva il bambino vive con i suoi genitori, che sono dei selvaggi, e anche se apprende a leggere e scrivere il suo modo di pensare e le sue abitudini sono indiane. È semplicemente un selvaggio che sa leggere e scrivere. […] I bambini che vivono nelle riserve sono selvaggi e devono essere portati via dalle famiglie e messi in scuole residenziali di apprendistato dove acquisteranno abitudini e modi degli uomini bianchi».
(Sir John Alexander Macdonald, primo ministro canadese, 1879)

Debutto pluripremiato nel mondo del graphic novel da parte di Elene Usdin, acclamata autrice/illustratrice/fotografa/scenografa, René·e addormentata nel bosco è un fumetto particolarissimo e potente, onirico e allo stesso tempo reale, vero. Una storia che comincia grigia ma poi si apre in un mare di blu, per farsi ancora più colorata con il suo dipanarsi.

Proprio come accade in Alice nel paese delle meraviglie, più seguiamo il protagonista alla ricerca del suo coniglietto Zucchero, più finiamo per addentrarci in un mondo fantastico e (ir)reale, una spirale fantasmagorica che esplode di colore dove niente è quello che sembra, o meglio, è oltre quello che sembra: il mondo reale che si raddoppia attraverso il sogno, prendendo nuove forme e dando ai personaggi nuove identità. Mondi comunicanti in cui non ci sono scelte sbagliate, ma solo ricerca.

Un racconto davvero stupefacente che partendo da fatti dolorosi veramente accaduti, ovvero il rapimento in Canada dei bambini aborigeni da parte delle autorità statali per quello che viene ormai considerato un genocidio culturale, ci apre le porte di un mondo nascosto fatto di leggende native e miti ancestrali, per un viaggio che si fa sciamanico e visionario, psichedelico nel vero e proprio senso della parola, ovvero che allarga la coscienza, portando quindi conoscenza: solo attraverso questo viaggio i personaggi scopriranno infatti chi sono, e soprattutto non sono, per trovare – forse – il proprio posto nel mondo e affrontare il male sempre in agguato. Sarebbe un peccato svelare altro, per una fiaba in cui uno dei pregi sta proprio nel suo essere così sorprendente, oltre che delicata e poetica: lasciamo quindi a ognuno il piacere di una lettura doppia, molteplice, infinita. 

«Zucchero, coniglietto mio… Vieni a osservare la notte che cala sulla città dalla nostra nave spaziale».

corvi.

12 marzo 2024 § Lascia un commento

«Non si tratta di un parlamento, né di un processo. Il corvo nel mezzo del campo è un narratore. Racconta a tutti gli altri la sua storia e quando finisce… scopre se agli altri corvi è piaciuta o no».
(Neil Gaiman, da Sandman – Favole e Riflessi)

Immaginate che il teatro sia un campo, camminate per questo campo e improvvisamente vi ritrovate davanti quattro corvi meccanici  – quelli veri si sono già estinti? – che prima vi raccontano di quanto poco manchi all’apocalisse ecologica dove non ci sarà un altro giorno e poi vi mettono sotto processo: cosa fareste, vi piacerebbe? Più o meno è questo che accade – con tanto di arringa finale – nello spettacolo di Marta Cuscunà, originariamente una serie pensata per il programma televisivo La fabbrica del mondo di Marco Paolini e Telmo Pievani trasmesso da Rai3: la televisione che finisce in teatro, che cosa curiosa: già questo invoglia a fare esperienza di questo Corvidae – Sguardi di Specie, spettacolo prodotto dal Piccolo Teatro di Milano e il CSS Teatro Stabile di Innovazione del Friuli Venezia Giulia, guidati dal MUSE – Museo delle Scienze di Trento che ha anche messo a disposizione della squadra artistica i suoi esperti: scienziati, biologi, paleontologi, ornitologi, esperti di divulgazione scientifica che hanno supportato la fase di ricerca e scrittura con spunti e approfondimenti.

Entrati in teatro, il sipario è già aperto e sul palco troneggia l’installazione scenica, progettata dalla scenografa Paola Villani, composta da quattro corvi meccanici manovrabili attraverso un sistema di joystick e cavi di freni di biciclette. Marta Cuscunà entra in scena tutta di nero vestita, novella marionettista cyber che darà voce – anzi voci – ai quattro corvi per un’oretta attraverso alcuni episodi già presentati nella trasmissione di cui sopra più altri nuovi, per un totale di dodici episodi – ognuno introdotto da un titolo a schermo e relativa sigla che da Quark sfocia in un glitch –  che a voler sintetizzare sono legati tra loro da un’unico macro-tema ecologico: ovvero quanto l’essere umano stia distruggendo il suo stesso habitat, unico animale a farlo, e di come – se – possa ancora porre rimedio a questa cosa. Lo spettacolo scorre liscio, tra percentuali, cifre e citazioni di studiosi come l’antropologa Anna Tsing, la biologa Lynn Margulis, il filosofo Bruno Latour e la filosofa Donna Haraway.

Dopo aver canzonato con sarcasmo il genere umano, e aver perfino immaginato in totale disincanto un mondo senza esseri umani, i corvi si rivolgeranno a noi stessi, qui seduti, in un comico e allo stesso amaro processo interattivo che ha luogo in questo teatro trasformato in un campo, probabilmente arido e assetato: siamo proprio sicuri di quello che stiamo facendo, non vogliamo cambiare, non vogliamo salvarci? Vogliamo davvero continuare a deridere (povera Greta Thunberg) e in alcuni casi addirittura ammazzare gli eco-attivisti, non dargli ascolto, continuare su questa strada che porta alla distruzione? Quanto è assurdo vivere in un mondo dove si crescono polli per consumarne solo qualche pezzo (Winston Churchill docet), quanto è assurdo vivere in un mondo dove si pensa di fermare l’innalzamento del mare con un muro (Donald Trump, chi altri?).  La bravissima Marta Cuscunà, leggera e profonda al tempo stesso, spinge alla riflessione su questi temi in uno spettacolo godibilissimo e divertente, nonostante appunto i temi trattati, adatto anche – e forse soprattutto – alle bambine e ai bambini, donne e uomini del domani che erediteranno questo malandato pianeta (dove incredibilmente, tra le altre cose, il calore cambia anche il sesso di certi animali). Non vediamo l’ora che trasmettano i prossimi episodi (dove alla fine però la Natura vince sempre, vedi quei mitici funghi immortali che si mangiano tutto ciò che c’è di sbagliato), uno di quei pochi casi in cui la televisione fa pure cose buone.

«La lungimiranza dei corvi funziona nel 90% dei casi».
(Nathias Osvath, zoologo)

[visto al Teatro Nuovo di Napoli, l’8/3/2024]

Etnorama – Cultura Per Nuovi Ecosistemi 
CSS – Teatro Stabile Di Innovazione Del Friuli Venezia Giulia 
MUSE – Museo Delle Scienze 
Piccolo Teatro Di Milano – Teatro d’Europa 
Tinaos
presentano

Corvidae 
Sguardi di specie 
di e con Marta Cuscunà
originariamente scritto per La Fabbrica del Mondo di Marco Paolini e Telmo Pievani, RAI3

progettazione e realizzazione animatronica Paola Villani
assistente alla regia e direzione tecnica Marco Rogante
dramaturg Giacomo Raffaelli
scenografie video Massimo Racozzi
graphic design Carlotta Amantini
costumi Chiara Venturini
esecuzione dal vivo luci, audio e video Marco Rogante
consulenza scientifica MUSE – Museo Delle Scienze Di Trento
foto di scena Daniele Borghello

l’installazione dei corvi è parte della scena de Il canto della caduta
una co-produzione Centrale Fies, CSS – Teatro Stabile Di Innovazione Del Friuli Venezia Giulia, Teatro Stabile Di Torino, São Luiz Teatro Municipal – Lisbona

sponsor tecnici 
igus® innovazione con i tecnopolimeri, Marta s.r.l. – forniture per l’industria

barbe.

25 febbraio 2024 § Lascia un commento

«Il tempo che corre ma che non dobbiamo rincorrere ma trascorrere».
(Saverio La Ruina, attore e regista)

Il tempo si ferma solo nel cimitero, luogo dove non corre nessuno e nessuno urla, viali ombreggiati dove regna il silenzio e il passo accorto. Lumini che segnano una strada che porta da chi non c’è più, così comincia questa Via del Popolo, un ricordo di quello che non c’è più, un tempo ormai andato che non c’è orologio che possa fermare.

Sul fondo del palco quello che appunto sembrerebbe un orologio, ma in realtà è un cronometro, l’unico oggetto che può regalarci l’illusione di fermare il tempo: premi un pulsante ed ecco, le lancette si fermano, hai ancora tutta la vita davanti, e qui magari la fisica quantistica potrebbe dirci molto, ma non è questo né il luogo né il punto. Accontentiamoci piuttosto del tempo liquefatto di Salvador Dalí, un tempo interiore che continua a parlarci di ciò che siamo stati, siamo, e forse saremo. Il tempo continua a scorrere, i ricordi restano.

foto di Carlo Maradei.

Solo in scena, l’attore e regista calabrese Saverio La Ruina – le cui parole sembrano voler strenuamente combattere l’omen ironicamente insito nel nomen – ci racconta una storia del tempo che fu, partendo dalla sua infanzia/adolescenza per poi allargarsi nel presente di tutti noi. L’avvio è dato proprio dalla passeggiata nel cimitero con un amico che ricorda di quando erano bambini la cui felicità semplice era data da gustose paste alla crema, e come dimenticare chi queste paste le dava e chi le negava? Poi venne il bar di famiglia, e con esso altri problemi e responsabilità, ma almeno quelle – le paste – non mancavano mai.

foto di Carlo Maradei.

C’è stato il tempo dell’infanzia, quindi, quando via del popolo la percorrevi in trenta minuti tanto l’affollamento dei negozi al dettaglio: il falegname così vicino alla salumeria che la mortadella sapeva di legno e i trucioli di pane, il fabbro innamorato della merciaia, l’elettricista che risolveva magicamente i problemi, i bar dove gli ubriachi volevano essere ancora più ubriachi, un ristorante accogliente, addirittura un cinema con un proiezionista esperto e piuttosto originale (montava i film a piacere suo). È venuto poi il tempo del centro commerciale, e la strada da 30 minuti si è rimpicciolita in 2, le saracinesche si sono fatte lapidi, il tempo si è guadagnato, sì, ma per cosa. Niente più Living Theatre in giro per la Calabria, niente più Aldo Moro la cui morte pose fine alla lotta e alla speranza.

foto di Angelo Maggio.

Come si diceva prima, però questa è soprattutto una storia personale, prima che nostra, lì dove con sapiente montaggio alternato e tempi (comici) perfetti La Ruina ci racconta magico e struggente anche del padre che a un certo punto cadde in un fosso e passò abbastanza bene la notte cantando e dormendo, per ritrovarsi poi come foglia stanca su un albero. Tenerissimo e malinconico, ma anche dolcemente divertente, un commosso La Ruina ci racconta col sorriso sulle labbra dell’ultima barba fatta al padre, una barba perfetta per chi è ormai pronto ad andare. L’ultima domanda rimane sospesa nell’aria, attacca la musica, si alza il vento. Il grande freddo, sì, però quanta felicità insieme. 

VIA DEL POPOLO – Vincitore del Premio UBU 2023 per il Miglior Nuovo Testo Italiano
di e con Saverio La Ruina
disegno luci Dario De Luca
collaborazione alla regia Cecilia Foti
audio e luci Mario Giordano
allestimento Giovanni Spina
dipinto Riccardo De Leo
amministrazione Tiziana Covello
logistica Rosy Parrotta
organizzazione generale Settimio Pisano
produzione Scena Verticale

handala.

3 febbraio 2024 § Lascia un commento

il bambino palestinese handala è ormai un’icona conosciuta in tutto il mondo: è rappresentato sempre di spalle perché non si gira a guardare chi le spalle le ha voltate prima a lui e al suo popolo. il suo creatore naji al-ali è stato assassinato nel 1987 per le sue idee politiche, ma handala vive e vivrà ancora. per chi vuole, qui c’è questo ebook scaricabile gratuitamente.

troiane.

14 gennaio 2024 § Lascia un commento

«Faccio teatro per problemi di coscienza, è l’unico modo per sentirmi ancora vivo e indipendente in questo mondo orribile che ci circonda e che peggiora di giorno in giorno».
(Carlo Cerciello, regista)

Non rovinerebbe certo lo spettacolo dire quello che accade alla fine di questo, lì dove la fine è già scritta, perché perennemente davanti ai nostri occhi, schermi, televisori, una fine che nasce dal buio in cui sembra siamo caduti, qui e adesso; non rovinerebbe certo lo spettacolo, considerato che mentre si aspetta in fila per accomodarsi in teatro, sul megaschermo proprio davanti a noi continuano a scorrere ineludibili le immagini dell’attuale massacro che continua là fuori, in questo momento e da sempre, il popolo palestinese ingiustamente massacrato, senza colpe, popolo a cui questo spettacolo è con pietà e compassione dedicato.

Carlo Cerciello prende Le troiane di Euripide e le riscrive attraverso Seneca e Sartre, aggiungendoci anche altre tragedie, Elena ed Ecuba, presentandoci quindi magistralmente questo spettacolo che come sottotitolo recita programmaticamente  in guerra per un fantasma: tutte le guerre nascono da un fantasma, qualcosa che non esiste e viene subito dimenticata, proprio come la verità, non appena violenza e bugie cominciano a prosperare.

L’azione si svolge su due piani, sullo sfondo vediamo una donna seduta a un tavolino, è vestita di bianco, all’occidentale, all’apparenza sembra godersi una vacanza, l’ombrellone che la protegge dal sole, la cannuccia che spunta da una bottiglia di coca-cola. Più vicine a chi assiste, quasi a ridosso degli spettatori, tre figure a lutto riverse su quello che sembra essere ghiaino bianco, piegate e distrutte dal dolore, aspettano chi non tornerà più, la vendetta come unico scopo di vita, ormai.

Gli dei hanno cospirato contro gli umani, e continuano a cospirare attraverso i mezzi più subdoli e diversi, ne leggiamo le parole come se stessero scorrendo su un social, intuizione moderna e potente: oggi piccole o grandi le guerre scoppiano e si alimentano così, per un qualcosa  letto o apparso in quel tritacarne mediatico che manicheisticamente riduce il tragico a un semplice bianco e nero, dove il torto e la ragione si fanno sempre più confusi ed è sempre il più forte a vincere, al di là di qualsivoglia giustizia. Lacerate dal dolore, gli occhi spiritati dal desiderio di vendetta, Ecuba, Cassandra e Andromaca piangono i cari perduti, e non è certo un caso che a terra venga deposto un neonato avvolto in una kefiah palestinese. 

Sullo sfondo c’è lei, Elena di Troia, madre di tutte le guerre, un’Elena  americana com’era la Marilyn Monroe che augurava tanti auguri di buon compleanno al signor presidente, altri tempi per altre guerre, ma ogni guerra è uguale a se stessa, senza vinti né vincitori. Le troiane vivono su una spiaggia color bianco sporco, la silhouette di Elena viene illuminata da colori che ricordano ancora un’ingiusta guerra moderna, il blu del cielo, il giallo del grano, una guerra a cui l’Occidente guarda con più partecipazione: esistono popoli più fortunati di altri?

Elena viene attaccata e avversata da Ecuba, Andromaca e Cassandra, donna contro donna, ma siamo sicuri che la colpa della guerra sia di Elena? Lo stesso Euripide scrive dell’innocenza di Elena, vittima della sua stessa bellezza non ha tradito  il marito, le guerre sono sempre economiche, e sempre profondamente ingiuste. Come carta straccia arriva questo messaggio alle nostre menti narcotizzate e analfabete, così annota il lucidissimo regista, quasi senza speranza; eppure, qualcosa resta, non foss’altro il silenzio assordante su cui si chiude lo spettacolo, riaccendendo la luce sulla bandiera palestinese, e lasciando ogni spettatore ai propri pensieri. Uno spettacolo tutto al femminile (bravissime Imma Villa, Mariachiara Falcone, Cecilia Lupoli, Serena Mazzei) che già in questo rappresenta e spera una nuova vita, se nuova vita potrà mai esserci. 

[visto l’11 gennaio 2024 al Teatro Elicantropo di Napoli, in scena fino al 4 febbraio 2024] 

Anonima Romanzi Teatro Elicantropo
presenta

Le Troiane
in guerra per un fantasma
da Le Troiane, Ecuba ed Elena di Euripide
adattamento di Sartre, riscrittura di Seneca

attrici Imma Villa, Mariachiara Falcone, Cecilia Lupoli, Serena Mazzei
costumi Antonella Mancuso
musiche Paolo Coletta
foto di scena Anna Camerlingo
aiuto regia Aniello Mallardo
realizzazione scene Andrea Iacopino
realizzazione costumi Laboratorio Donadio
video editing Fabiana Fazio
assistenti Anna Orabona, Umberto Ranieri, Luca Russo
regia Carlo Cerciello

si ringraziano Cesare Accetta, Roberto Crea

moretti.

13 gennaio 2024 § Lascia un commento

«Nei Sillabari, Goffredo Parise distilla la pietra filosofale del raccontare. Ma non racconta, fa qualcosa di più. Invoglia a pensare che il mondo sia raccontabile, e che la sua raccontabilità sia una meraviglia da scrutare attraverso un foro minuscolo».
(Cesare Garboli, critico letterario)

Questa due giorni morettiana comincia con il signor Nanni che legge alcuni racconti da un libro fondamentale per capire la scrittura, ma anche per guardarci allo specchio in quanto essere umani, forse italiani, ma in generale proprio umani, i Sillabari di Goffredo Parise, racconti semplici e precisi, che appunto ci insegnano un qualcosa che molto spesso pare essere dimenticato, e nello specifico: Amicizia, Cinema, Italia, Libertà, Gioventù, Donna. Mini-romanzi o poesia in prosa, queste parole delineano un nitido  ritratto dell’Italia che fu, molto lontana da quella odierna, forse imperfetta come il tempo usato, ma sicuramente più aperta, tenera, gentile: l’imperfetto è il tempo delle favole, ponendosi sul fondo dei racconti, rifletteva il corso fuggevole della vita, così come scrive Natalia Ginzburg rievocata nell’introduzione da Moretti.

La lettura è semplice, lineare, senza fronzoli, con qualche guizzo d’attore giusto nei dialoghi, ma per il resto scorre piana, così come d’altronde i racconti. A un certo punto il microfono fa le bizze, tocca cambiarlo, Moretti guarda il tecnico nemmeno fosse un alieno, questo l’unico momento in cui la realtà entra nello spettacolo. Tornati a casa, con le parole dei densi racconti di Parise che ancora ci risuonano dentro, non ci si può fare a meno di chiedersi che fine abbiano fatto quegli uomini e quelle donne di cui scrive uno dei più importanti scrittori italiani. Esistono ancora gruppi di amici che vanno a sciare insieme, veloci e felici su una neve dal nitore irreale? Una ragazza che nel suo giorno libero va al cinema e arrossisce per un bacio sullo schermo, indifesa davanti alla crassa maleducazione degli altri spettatori? Dove sono finite quelle persone per cui l’onore è la cosa più importante, e amarsi equivale a fidarsi? Un politico di oggi può ancora permettersi di provare una dolce epifania, una donna può ancora permettersi di scappare dal marito cretino? Forse anche un paese invecchia, e non c’è più possibile gioventù, la vecchiaia è quello che resta di ciò che è stato, insieme a  qualche svogliata carezza, e un po’ di tenerezza, come canta il De André posto a mo’ di sigla finale, e un motivo ci sarà.

Il secondo giorno Moretti rientra tra le quinte del teatro, così come giustamente si addice a un regista, e ci presenta due brevi testi della già evocata Natalia Ginzburg, Dialogo e Fragola e Panna. Le scene sono due ma l’atto unico, diviso in un dittico, la storia è doppia ma molto simile. In ambedue le rappresentazioni ci ritroviamo in un interno borghese con problemi di coppia vari, anzi, il problema unico per eccellenza: il tradimento. Non c’è molto movimento in queste storie, non serve d’altronde, la regia è minima, se non nella direzione degli attori, che soprattutto nella seconda parte dello spettacolo si muovono molto, non foss’altro perché sono più di due e la porta che troneggia al centro continua ad aprirsi.

Questi due piccoli racconti, per ambientazione e azione, sarebbero potuti benissimo rientrare nella raccolta dei sillabari parisiani, ma quello che li rende diversi dalle storie ascoltate la sera prima sono le “chiacchiere”, un teatro di cui la Ginzburg è amante e maestra. Chiacchiere, sbrodeghezzi, potacci, sempiezzi… che rimandano alla puntuale e (im)perfetta idea di un intimo lessico famigliare. Le storie qui sono grevi, tristi, eppure c’è leggerezza, talvolta si sorride anche, e in questo sta la bravura del Moretti regista teatrale, la capacità di essere riuscito a far scorrere liscia una storia che se vista nel profondo appesantisce comunque il cuore. C’è tanta tristezza qui, eppure. Il marito che a letto sembra dispiacersi più per la perdita dell’amico che dell’amore finito con la moglie, un marito che sembra cretino, ma non lo è, è solo l’amore che ci fa fare tante cretinate, come accudire il cane dell’amante della moglie, comunque l’unico amico che ha. E poi la moglie che dà i soldi all’amante ragazzina abbandonata dal marito, siamo davvero sicuri che non sia gelosa, che non gliene importi nulla? Il cuore umano è così strano, straniero anche a chi lo porta in petto, ci vuole una certa sensibilità per comprenderlo. Ginzburg, Parise, Moretti, ci provano e ci riescono, parlando ancora all’oggi, di tragedie che si fanno barzellette, e viceversa.

«Natalia Ginzburg per me è tra i più importanti autori italiani. Anche se la sua immaginazione poetica non è attratta dall’eccezionalità o dall’assurdo, il suo stile “semplice” e musicale, l’umorismo dolce e le partiture sofisticate delle “chiacchiere” che riempiono le sue opere arrivano a toccare corde emotive fortissime, restituendo grandezza e profondità a personaggi solo apparentemente “piccoli”. Si viaggia con ironia tra i toni malinconici di una poesia fatta di elementi quotidiani e domestici e si resta affascinati dalla musicalità originale dei suoi dialoghi. La Ginzburg ha una penna leggera, ma scava gli animi, e i suoi sono personaggi ritratti con incredibile maestria psicologica, degna di autori come Čechov».
(Valerio Binasco, Direttore artistico del Teatro Stabile di Torino)

[visti il 9 e il 10 gennaio 2024 al Teatro Mercadante di Napoli]

regia Nanni Moretti
con Valerio Binasco, Daria Deflorian, Alessia Giuliani, Arianna Pozzoli, Giorgia Senesi
scene Sergio Tramonti
luci Pasquale Mari
costumi Silvia Segoloni
foto di scena Luigi De Palma
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Carnezzeria Srls, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, LAC Lugano Arte e Cultura, Châteauvallon-Liberté scène nationale, TNP Théâtre National Populaire de Villeurbanne, La Criée – Théâtre National de Marseille, Maison de la Culture d’Amiens
in collaborazione con Aldo Miguel Grompone

leguesswho.

24 novembre 2023 § Lascia un commento

bala desejo [tim van veen]

Love will find a way, love will find a way, love will find a way… Continua a declamare e salmodiare la divina Moor Mother (al secolo, Camae Ayewa) durante il concerto che in un’eventuale classifica finale sarebbe fuori concorso poiché probabilmente è la puntina di diamante dell’edizione 2023 di Le Guess Who?, The Harvest Time Project, ovvero il tributo al compianto sassofonista Pharoah Sanders concepito e suonato dal gruppo avant-jazz Irreversible Entanglements, dal polistrumentista brasiliano Domenico Lancellotti e dal chitarrista originale della formazione di Sanders, Tisziji Muñoz, tutti coordinati e diretti da Joshua Abrams (dai Roots ai Natural Information Society). La musica scorre impetuosa e amorosa allo stesso tempo, in ricordo del grande sassofonista, libera e potente: l’amore troverà un modo, e se non l’ha trovato qui e ora, davanti a noi, questa domenica pomeriggio dell’anno 2023 a Le Guess Who? di Utrecht, quello che possiamo chiederci è solo, ma allora quando e dove?

bombino [maarten mooijman]

Le Guess Who?, festival all’occhiello della cittadina universitaria olandese, cugina freak della più commerciale Amsterdam, festival musicale dove non solo si va a sentire ciò che è confortevolmente conosciuto, ma soprattutto si va alla scoperta dello sconosciuto, ciò che proviene da un altrove che non sempre è sotto i riflettori, ed è proprio questo il bello, entrare in questa incredibile astronave multilivello che è il Tivolivredenburg – 5 sale dall’acustica perfetta – e ascoltare, ascoltare, ascoltare, il passato e il presente, ma sempre con una propensione al futuro: accogliere lo sconosciuto, celebrare il suono, ascoltare in avanti: questa la filosofia di Le Guess Who? che propone un programma principale e altri curati da artisti e musicisti che cambiano ogni anno per una massima varietà possibile (i curatori di quest’anno sono stati Heba Kadry, Nala Sinephro, Slauson Malone 1, Stereolab), un festival dove anche gli artisti/musicisti si sentono a casa, in pausa da tour estenuanti, basta vedere come se ne vanno tranquillamente in giro, sorridenti e rilassati, e come dimenticare di quella volta che Bjork – artista che Le Guess Who? si prese anche il lusso di non annunciare – si mise in fila in attesa di entrare in una sala, proprio come tutt*? A tutto questo vanno ad affiancarsi inoltre sezioni particolari come Hidden Musics devota a portare alla nostra attenzione musiche di paesi lontani e fuori dai radar, la ricchissima piattaforma online Cosmos, il vero e proprio festival parallelo e completamente gratuito U? che si svolge nei quartieri di Utrecht negli stessi giorni di Le Guess Who?, e ancora, mostre, talk, proiezioni.

nala sinephro [lisanne lentink]

A dimostrazione della filosofia aziendale, l’illuminato direttore artistico Bob Van Heur propone una bella sfida agli amanti del festival: ascoltare qualcuno o qualcosa al buio, ascoltare solamente, senza sapere chi si sta ascoltando, famoso o esordiente che sia. Sedersi quindi nella sala principale, aprire le orecchie e lasciarsi ipnotizzare non solo dal suono, ma anche dall’immagine e dagli effetti che scorrono su questo immenso cubo che giganteggia sul palco, il punto interrogativo simbolo e dichiarazione d’intenti del festival via via sostituito da colori, sagome, diramazioni, frattali e psichedelia: chi c’è lì dentro, ci chiediamo tutti, ma è davvero importante? Ascoltiamo, e va bene così. Questo è l’Anonymous Project, previsto per tre momenti della prima giornata del festival, ogni momento che si espande per un’ora; Shazam all’orecchio, per il primo momento qualcuno fa i nomi dello Yann Tiersen più elettronico  o l’Eluvium più ambient, per il terzo momento sembra di ascoltare proprio la nera e suadente voce di Gabriels mentre qualcun altro sogna di ascoltare Carlos Nino e addirittura l’ormai flautato André 3000, o anche Laraaji per la tunica arancione intravista, e durante il secondo momento chi avrà suonato, mica Jonny Greenwood in solo originariamente previsto con Dudu Tassa e poi cancellato per il mondo cattivo e guerrafondaio in cui ci ritroviamo a vivere? Non ha importanza chi abbiamo sentito, ripetiamo, l’amore ha trovato un modo, è questo che conta, almeno per qualche giorno.

ndox electrique [jelmer de haas]

Il primo giorno continua quindi con l’intimo e livido rap di Tirzah che risuona quasi al buio, illuminata solo da un fascio di luce bianca, e dopo un rapido passaggio al virtuoso del piano Chris Pattishall si passa poi  ai libanesi SANAM, uno dei gruppi più attesi di questa line up, che nonostante qualche incertezza dovuta alla giovane età confermano potenza e profondità del disco, fondendo canti orientali a sonorità più occidentali, tra poesia e rumore, con una frontwoman magnetica la cui voce ammalia e commuove, e certo sarebbe stato bellissimo vedere i SANAM dopo l’israeliano Dudu Tassa, in un ideale abbraccio musicale, ma il mondo là fuori ancora non comprende la forza della pace, preferendo il dolore della guerra. Dopo aver dato un’altra possibilità a Slauson Malone 1 che sinceramente appare troppo aleatorio e inconcludente (ma se è tra i preferiti degli Animal Collective e del festival un motivo ci sarà, si approfondirà), si parte per l’Africa più nera tra il dub degli African Head Charge e il rock dei W.I.T.C.H., per finire poi nella Scandinavia più rumorosa con le Selvhenter, quartetto danese tutto al femminile che con 2 batterie e 2 fiati suonati in maniera “impropria” propone un drone metal bello potente che ci manda a letto con le orecchie che fischiano, belli felici per un’altra bella scoperta musicale.

nihiloxica [jelmer de haas]

Il secondo giorno del festival comincia invece nella seconda sala del teatro municipale della città, sì perché Le Guess Who? ha la particolarità di essere un festival diffuso, ovvero di svolgersi in più luoghi tutti più o meno vicini tra loro, e quindi ecco che oltre che nell’astronave Tivolivredenburg si può godere di un concerto in una chiesa, in un teatro, in qualche locale, o anche nel fantastico laboratorio di serigrafia Kaapital, luogo ufficiale di cazzeggio del festival, tra magliette, birre (c’è anche quella speciale al cetriolo del festival!), e djset. A teatro si diceva, e quindi eccoci assistere all’incredibile e magnetico concerto delle 2 protagoniste italiane di questa edizione, Marta Salogni (ingegnere del suono e produttrice che ha in curriculum gente come Animal Collective, Bjork, Frank Ocean e Depeche Mode) e Valentina Magaletti (batterista, percussionista, compositrice), le quali ritroveremo infatti in più occasioni, sotto varie vesti, questa volta eccole suonare e interagire insieme, la Salogni impegnata a mixer e bobine, la Magaletti a batteria e percussioni varie, per un concerto unico e stupefacente come solo a Le Guess Who? può accadere. Si scende quindi nella sala principale del teatro, dov’è previsto il concerto dell’organista Kali Malone con l’apporto della violoncellista Lucy Railton e del chitarrista Stephen O’Malley, Does Spring Hide Its Joy, drone minimalista di circa un’ora e mezza in cui perdersi, tra suono e interferenze video. Tornare al Tivolivredenburg per passare da atmosfere così dilatate e stranianti alla gioia di vivere emanata dai giovanissimi brasiliani Bala Desejo è un vero e proprio – piacevolissimo – shock, ma i festival sono così, veri e propri frullatori multiculturali che accendono cuore e cervello, e ben vengano shock del genere, coi Bala Desejo osannati perfino dal maestro Caetano Veloso si balla e si ride, quasi piangendo dalla gioia, per un’ora che si candida subito a essere tra le migliori del festival. Ma oggi si è deciso di passare la giornata tra i locali satelliti a mezz’oretta dall’astronave principale, fare la spola tra De Helling e LE:EN per il cosiddetto venerdì psichedelico: si arriva giusto in tempo per la coda finale dei rumorosi Wolf Eyes, ma meglio correre subito all’altro locale per gli Homesick, gruppo olandese di scuola Animal Collective, la somiglianza è davvero impressionante, sembra di ascoltare proprio Avey Tare e Panda Bear, anche se con un tocco di oscurità in più. Oscurità che la farà da padrone per le ore successive, prima con gli Holy Tongue (altro progetto della già menzionata Magaletti) che ci propongono un dub scurissimo e avvolgente, e poi con il misterioso duo horror texano degli Ak’chamel, che esoterici e magici scendono tra il pubblico a suonare i propri strumenti auto-costruiti per un concerto a lume di candela che si rivela unico e inquietante. La spola tra locali finisce coi FACS e il loro post-punk teso e stridente, per poi chiudere la giornata di ritorno alla base con i Phelimuncasi, altro gruppo potente  e provocatorio della premiata etichetta Nyege Nyege, che come l’ape sudafricana da cui prendono il nome si muove violento ma leggero sotto gli occhi del pubblico ipnotizzato e ripreso perfino da una cinepresa a 16mm (si è in fremente attesa del risultato finale!).

sanam [lisanne lentink]

Il terzo giorno sarebbe dovuto cominciare sempre al teatro municipale, con la riproposizione per intero dell’album Languoria da parte del duo di artiste ambient Sofie Birch e Antonina Nowacka, ma è solo la seconda a presentarsi sul palco, poco male, passare un’ora in compagnia della voce della Nowacka si rivela un’esperienza bella ed estraniante, soprattutto perché non si capisce da dove fuoriesca effettivamente il suono, dalla sua bocca o da uno strumento? Antonina Nowacka sembra aver ingoiato un theremin e la sua voce è un balsamo dolce per le orecchie sovraccariche di questi giorni. Si ritorna quindi al Tivoli per il concerto del già citato Domenico Lancellotti, altro brasiliano che fa sua la tradizione solo per poi stravolgerla, in un concerto che si alterna tra luci e ombre, molto bello, e quindi i Moin, concerto strapieno con la Magaletti ancora dietro i tamburi per un post-rock rumoroso e distorto mentre in una sala più piccola stanno suonando i commoventi Good Ones che attraverso la musica cercano di guarire dal sanguinoso conflitto civile ruandese. Ci si torna quindi ad accomodare in sala grande, per quella che sulla carta sembra essere una delle più interessanti e attese collaborazioni del festival, Caterina Barbieri con Space Afrika e il visual artist MFO, peccato che però dei fastidiosi problemi tecnici – un allarme anti-incendio che tra luci e sirene crea non poco fastidio – vadano a funestare un concerto forse un po’ troppo vacuo, anche perché grandi assenti sono i sintetizzatori della pur sempre fascinosa Barbieri che a questo giro preferisce presentarsi con voce e chitarra acustica. Meglio ricaricarsi un po’ con la frenetica e desertica musica di Bombino, il cosiddetto Jimi Hendrix di Agadez, la cui chitarra nigeriana ha pochi eguali oggigiorno, per poi lasciarsi andare alle lussureggianti psichedelie rave di James Holden, nonostante il flusso purtroppo non si mantenga continuo andando quindi a interrompere l’estasi sonora (e peccato soprattutto perdersi l’esordio post-Low di Alan Sparhawk ancora completamente devoto alla sua Mimi Parker, ma è stato comunque bello salutarlo poco prima per strada, stringergli la mano con forza, in un caloroso abbraccio). Asciugate le multicolori liquidità di Holden, si passa quindi al punk-funk delle ESG, ma questo in teoria, nella sgangheratezza ci si diverte pure, certo, però ci si aspettava qualcosa di più, è che il tempo passa per tutt*, pazienza. Molto meglio l’energia sfrenata e dirompente dei Bixiga 70, ennesimi clamorosi brasiliani di questa edizione, che tra fiati e percussioni ci scatenano in un trenino che solo loro avrebbero potuto provocare a Le Guess Who?, manco fossimo a capodanno, eppure il divertimento è davvero assoluto. La giornata si chiude scendendo all’inferno con gli ugandesi Nihiloxica, che a tratti sembrano risuonare come dei Nine Inch Nails africani, e l’elettronica di Hagop Tchaparian.

bixiga 70 [lisanne lentink]

Il quarto e ultimo giorno si apre nel locale più piccolo tra i locali, l’Ekko che affaccia su un bel canale, sono solo le 3 di una domenica pomeriggio, un orario che dovrebbe essere dedicato a ben altro, ma si sta bene e niente può fermare il vero appassionato (maniaco?) di musica, ecco quindi superare la fila ed entrare al buio per il concerto dei giapponesi Maya Ongaku, trio che si perde e ci fa perdere tra ambientazioni meditative per poi esplodere sempre più forte in cavalcate fantascientifiche, quasi a dare l’impressione di essere atterrati in una Tokio iper-futuristica. Si torna quindi all’amato Tivoli per godersi il ricordo di Pharoah Sanders di cui si è parlato in apertura e qualche pacifico momento di un’altra talentuosa brasiliana che farà strada, Ana Frango Eletrico. Le sonorità si rifanno più oscure ed elettriche con i Ndox Electrique, rituale esorcistico senegalese messo in musica da Francois Cambuzat e Gianna Greco con tanto di ballerine/cantanti e veri e propri tamburi africani, sarà bello anche salutarli a fine concerto disponibili e sorridenti come sempre, mentre la calma più pacifica e assoluta calerà ancora una volta nella sala più grande con il quartetto guidato da Nala Sinephro, che tra arpa e sintetizzatori ci prenderà per mano solo per lanciarci nel cielo più limpido e ipnotico, sicuramente uno dei concerti più belli di tutto il festival, questo della compositrice/produttrice/musicista caraibico-belga. Tornano poi sul palco gli Irreversible Entanglements guidati da Moor Mother, questa volta per un concerto vero e proprio, un avant-jazz potente, il loro, arcaico e futurista allo stesso tempo: se volete fare la rivoluzione, ascoltate questo gruppo! Si decide poi di girovagare un po’ tra le sale, un festival è anche questo, decidere di vedere un po’ di tutto per quella onnipresente e fastidiosa sensazione di essersi persi qualcosa, quando si è visto già tanto, e pazienza, così si passa dagli scatenati e violenti Model/Actriz al canto divino di Faiz Ali Faiz, e non può esserci niente di più stimolante di questa attitudine, per poi dare un ascolto un po’ più approfondito alla chitarra storta ed emozionante di Bill Orcutt in duo con la sassofonista Zoh Amba, che soffia i suoi polmoni nello strumento come una dannata. Si chiude in bellezza con gli Stereolab, persi tra melodie cosmiche e psichiche, e non potrebbe esserci chiusura migliore se non con queste chitarre, queste canzoni, questi sorrisi, è tutto così bello, e ancora più bello sarà, dopo aver attraversato l’elettronica di CRYSTALLMESS e Zakia, tirare le due col djset della sorridente e affascinante Laetitia Sadier che balla felice come una ragazzina, ti balla proprio vicinissimo e sembra quasi di essere nel salotto di casa tua, grazie Le Guess Who?, siamo davvero a casa, sì.

stereolab [tim van veen]

saugo.

4 novembre 2023 § Lascia un commento

«Tutto si trasforma in nostalgia. Ogni cosa. Ogni ogni minima cosa anche andata storta, scarsa, sbolsa, rifilata già scaduta, taroccata, smorta. Tutto si trasforma in nostalgia. In paradiso perduto. In paradiso esistito. È esistito un paradiso, sempre, ogni momento. Ogni momento riceveva la benedizione. È esistito un paradiso sempre, ogni momento. È stato tutto un paradiso, sempre. Dietro le spalle era un paradiso, dappertutto, ogni momento. Un paradiso da indietreggiare. Indietreggiare. Indietreggiare. E c’era una volta un supermercato così bello, ma così bello, che tutti gli altri supermercati ne erano invidiosi. Lui, a differenza degli altri supermercati, aveva una cosa in più: lui aveva un mistero». (Alessandra Saugo)

Capita un dolce sabato di inizio settembre di capitare in un festival letterario di provincia, lì dove la parola provinciale però non assume significato negativo, anzi, ma si fa piuttosto dimensione piccola e accogliente, a misura d’uomo, umana. Capita di ascoltare quindi un grande scrittore leggere qualche riga da un libro, capita di ascoltarlo, e vederlo, commuoversi, proprio lì, proprio mentre legge quelle parole scritte su carta, povere parole distese per terra, nude, intime, potenti, sante. Fuori dal mondo, minuti d’incanto.

Il festival letterario si chiama FLiP (Festival della Letteratura Indipendente – Pomigliano d’Arco) e il grande scrittore che legge si chiama Antonio Moresco e per questo evento dobbiamo ringraziare Wojtek, illuminata e illuminante libreria e casa editrice dalla bellissima e curatissima grafica retrofuturista (opera di Antonio “Bobo” Corduas) che così si descrive sul proprio sito, spiegando chi è Wojtek: «Wojtek è il nome dell’orso bruno siriano adottato dalla XXII Compagnia di rifornimento dell’artiglieria nel Corpo polacco, durante i preparativi della battaglia di Cassino. Wojtek, simbolo della resistenza polacca durante la Seconda guerra mondiale, è allora il “guerriero sorridente”, attento ai nuovi lettori, ai lettori in cerca di tracce di esplorazione, consapevole dei modi e dei ritmi della narrazione, e pronto a spingersi persino nei luoghi in cui nessun libro è mai stato, intercettando visioni del e dal presente, con i linguaggi più diversi. Wojtek guarda anche agli ambienti delle avanguardie letterarie, le riviste online, perché è lì che spesso si annida lo sguardo più radicale. La casa editrice propone narrativa “non di genere” e intende tale formula in senso inclusivo e di apertura rispetto ad ambienti e a letterature inesplorate o solo parzialmente esplorate dall’editoria italiana, evitando dunque qualunque approccio mainstream. Wojtek vuole così intercettare – come davanti a una radio clandestina del secondo conflitto mondiale – le narrazioni capaci di decodificare, in piena libertà di concezione e realizzazione, quanto sta realmente accadendo a lato, dietro e oltre rappresentazioni rassicuranti e parole ovvie».

Il libro di cui si parla, ecco, è uno dei più recentemente pubblicati, Come una santa nuda, libro che viene pubblicato sei anni dopo la morte dell’autrice Alessandra Saugo, la cui voce viene definita da Moresco indomabile, intollerabile, inclassificabile, politicamente scorretta, scatenata, delicata, traumatizzata, comicodisperata, delirante, perturbante, urticante, unica. Miglior presentazione non potrebbe esserci, per un libro che procedendo per frammenti viene a formare molto più di un testamento spirituale, ma piuttosto un corpo pieno, unico, presente, immortale.

Ferocemente, Saugo scrive quello che potrebbe sembrare un malincomico diario, o un testamento triste, o ancora un appassionato memoir come tanto va di moda dire oggi, ma che diventa qualcosa di più nel momento in cui la scrittura da intima si fa universale, trascendendo dal mondo, ma senza inacidire, nonostante il male che sempre travolge la vita della protagonista. Ferocemente, Saugo descrive ciò che vede, e che sente, sia che si trovi nello studio del famoso psicologo dinamico, sia che si trovi davanti alla televisione con la solita sfilata di casi umani.

Ma forse che casi umani non lo siamo tutti, sembra dare a intendere l’autrice parlando con il suo amico John, nome effimero ed evanescente come a dire Caro diario, eppure chissà che non esista davvero, questo John, e non rientri tra i colleghi più volte tirati in ballo per nome e per cognome, e che non sempre ne escono bene in un mercato editoriale sempre più marcio (?). E poi ci sono le donne che vanno dallo psicologo dinamico per essere curate, ma per cosa non si capisce, queste donne a orologeria programmate per un’unica cosa, pare, col marito traditore sempre appostato dietro l’angolo. 

Sembra avercela con tutti, Alessandra Saugo, non salva nessuno, nemmeno la povera cantante morta alcolizzata, distrutta, sfruttata, forse giusto quell’altro cantante che la culla nella notte, eppure la voce di Alessandra è così distante da non poter far male, come se stesse osservando da lontano, delicatamente, ma soprattutto sofferente, consapevole del poco tempo rimasto, della brevità della vita a disposizione. Siamo così piccoli.

E allora guardare, ma non toccare, scrivere semmai, porre fine al delirio di una vita malata che sta per chiedere il conto, rifugiarsi in ciò che è rimasto e rimarrà nonostante il paradiso (?) perduto: la piccola e infinita bellezza di una figlia appena nata: ecco ciò che commuove nel mistero di una vita (una morte) incomprensibile: può esistere un regalo più grande che una madre, la madre, può fare? Parole, parole, parole. Nostalgia infinita.

«Alessandra è una scrittrice feroce, ma solo perché la sua musa è il trauma. In lei c’è ferocia perché c’è delicatezza: le due cose sono inseparabili. Proprio perché in lei c’è delicatezza, proprio per questo le cose che la toccano, la sfiorano, l’attraversano hanno l’impatto di un’ustione e di un trauma. Ma è proprio questo che le dona una seconda vista, che la rende più perspicace, più potente e inarresa, più scatenata e persino più baldanzosa e scherzosa. Le persone che hanno il pelo sullo stomaco, le persone che sanno bene come va il mondo e che sanno trarne vantaggio non hanno bisogno di essere feroci. Sono le persone inermi, sono le persone che hanno aspettative e aneliti e che subiscono delusione e trauma a registrare così il loro impatto col mondo e con il buio del mondo (“È per delicatezza che ho perduto la mia vita”, scrive Rimbaud.) E io ho potuto conoscere di persona quanto fosse grande la sua delicatezza, fin negli ultimi istanti della sua vita e nei messaggi che mi sono arrivati da lei persino dal suo letto di morte». (Antonio Moresco)

loureed.

2 novembre 2023 § 2 commenti

questa foto è stata scattata tanti anni fa a napoli, e più precisamente al museo pan più di 15 anni fa, nell’occasione di una mostra fotografica di lou reed: erano gli albori del digitale e lou reed si era divertito a fare alcune foto, sperimentando con tempi e luci, producendo quindi scie luminose in spazi vari, cosa che all’epoca non era poi così scontata fare, naturalmente spazi perlopiù appartenenti all’amata new york con le sue mille leggendarie luci (e ombre). lou reed era seduto al tavolino con un grosso impermeabile in pelle e firmava copie del suo libro, o dischi magari, e aveva richiesto espressamente di non essere fotografato, ma come fai, ti ritrovi davanti uno dei tuoi miti e non cerchi di rubargli una foto? niente selfie e va bene, ma almeno una foto? all’epoca anch’io ero agli inizi del mio rapporto col digitale, avevo una piccola canon portatile ed ero lì che gli scattavo foto a raffica, in automatico, senza nemmeno controllare diaframma e tempi, non ne ero ancora  capace e non volli stare a sentire l’amico più esperto che era con me, ed ecco quindi il risultato: una foto un po’ eterea ed evanescente che a 10 anni dalla morte restituisce un lou reed fantasmatico che più o meno starà pensando vai a quel paese, sicuro. ma meglio un vaffa’ mitico che un finto sorriso. che poi io ce li avevo anche dischi e libri, ma stupidamente non pensai di portargli qualcosa da firmare, e così quando mi presentai con una misera moleskine lui giustamente più che uno scippo schifato, che poteva farmi? il giorno prima l’avevo anche visto in concerto, e nemmeno la locandina mi ero portato dietro, o la scaletta che mi ero fortunosamente accaparrato, un fesso totale. un concerto in cui sul finale aveva duettato anche con la moglie laurie anderson, presente in città per un altro concerto nei giorni precedenti, ingresso gratuito a città della scienza, superfluo dire che ero anche lì, e chi è che si sedette proprio davanti a me? a dirlo veramente sembra un’assurdità, ma davanti a me c’era proprio lou reed, e ancora oggi mi chiedo se abbia dormito tutto il tempo o abbia visto tutto il concerto con gli occhi chiusi, godendoselo così, in modalità meditativa, per poi rinvenire solo al momento dell’applauso. ma chi sono io, per chiedermi questo. lou reed comunque l’avevo anche già visto, un paio d’anni prima, concerto super, prima patti smith e poi lui, a fiuggi, un’amica non potè andare e così ci andai io e ancora mi ricordo quando i poveri col biglietto da poveri sfondarono le transenne laterali per meglio godersi il concerto con grande fastidio di chi aveva pagato di più e se ne stava bello seduto tranquillo davanti al palco. ovviamente nessuno fece una piega, né zia patti né zio lou, com’è giusto e naturale che sia. addirittura lou reed l’avevo già visto coi velvet underground, se è giusto dire così, nello zoo tv tour della famosissima band irlandese, aprivano proprio loro sì, ma io ero così piccolo e lontano che non ricordo proprio nulla, se non quella rissa che si scatenò sul prato dello stadio, qualcuno che fuggiva inseguito da non so chi e la folla che si apriva impaurita. intanto i volumi erano bassissimi e non si capiva nulla, quindi facciamo che il sogno di aver visto i velvet underground continui a rimanere un sogno, così come continuano a rimanere i dischi che continuano a provocare quei brividi così intensi, di piacere o dolore, chissà, è importante saperlo? satellite of love, perfect day.

«Due anni, molte macchine fotografiche e molti obiettivi: queste immagini sono il risultato di un piccolo tentativo di catturare la bellezza che tocca l’anima di un uomo che sta sulla riva del fiume con una scatola in mano cercando di fare un ritratto al luminoso trascorrere del tempo. Queste fotografie testimoniano il celestiale light show della città, sono il diario quotidiano del maestoso movimento del cielo e delle acque manovrato da una divinità di così infinito talento e originalità che a un fotografo non resta che inquadrare, mettere a fuoco e pregare affinché l’obiettivo catturi un frammento di quella fuggevole grandiosità per dare la possibilità, a chi ha voglia, di trarne ispirazione». (Lou Reed)

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