comicon2024.

1 Maggio 2024 § Lascia un commento

Assai lontani sono ormai i tempi del Comicon a Castel Sant’Elmo, il passaggio alla Mostra d’Oltremare dapprima parziale si è completamente compiuto: il Comicon non è (più) un festival per vecchiardi e va bene così, il fumetto solo una parte del tutto, tanto è vero che la dicitura corrente è Festival Internazionale della Cultura Pop.

poster ufficiale Comicon 2024, illustrazione di Mike Del Mundo.

Eppure qualcosa è rimasto, e tra cosplayer e videogiochi, un proprio percorso è ancora possibile, d’altronde ci sono ancora due padiglioni belli densi dedicati agli editori, fino a quando vorranno restarci, ed è ancora bello scoprire e comprare qualche albo sorprendente e innovativo che trova qui comunque un suo spazio rispetto alle enormi librerie supermercato del mainstream, basti fare qualche nome come Canicola, Barta, Eris, Becco Giallo, Hollow Press, piccole case editrici con un proprio progetto, sempre attente e ricche nella propria proposta. 

Cammamoro, da AlterLinus.

È bello ascoltare anche alcuni degli autori raccontare il proprio lavoro, entrare nella loro officina/mente, ampliare quindi la comprensione di quello che si legge. Bellissimo per esempio l’incontro con Igort e i suoi protetti, qui presentati proprio in una delle mostre del Comicon: 5 rotte possibili, ecco quindi la francese Elene Usdin (qui la nostra recensione del suo magnifico albo), il siciliano Cammamoro, l’inglese James Harvey, il lunare WĀMU, manca solo il cinese Woshibai. Tutti autori caratterizzati da un segno/linguaggio che va al di là dell’ordinario per perdersi in lande visionarie e psichedeliche, ognuno secondo una propria originalità e visione, dei veri e propri creatori di mondi.

Interessanti anche altri incontri: con la casa editrice Future Fiction, che ci racconta le fantascienze da tutto il mondo, con le storie storte di Pastoraccia (una storia pubblicata da Canicola a metà tra Lynch e Bergman, Ghirri e Antonioni) e Holly Heuser (una storia spaziale pubblicata da Eris) e Juta (le surreali e demenziali avventure di Gatto Pernucci pubblicate da Coconino Press) e Marco Quadri (una storia ipnotica e allucinata pubblicata da BD Edizioni), ancora fantascienza con Enrico Pinto (un’interessante e preoccupata distopia pubblicata da Coconino Press) e Matteo De Angelis (con un ambizioso progetto musicale/esitenziale in 7 volumi pubblicato da Bao), con Fabrice Neaud e il suo Diario che racconta di come era difficile essere omosessuale e precario negli anni ‘90, e ancora Francia con i sorprendenti lavori grafici pubblicati da Coconino Press di Martin Panchaud e Marc-Antoine Mathieu.

Grazia La Padula, “Diario di una cagna” (Premio Micheluzzi per il Miglior Disegno).

Imperdibile poi l’incontro sulla British Invasion con due mostri sacri come David Lloyd (V per Vendetta) e Glenn Fabry (Slaine, Preacher, etc), ma solo per chi è riuscito a cogliere l’inglese visto che purtroppo è stato funestato da una traduzione non sempre all’altezza (passi per la ignoranza del Comics Code, ma come si fa non conoscere la citazione più famosa di Voltaire sulla libertà di espressione o il detto “Il resto è storia”?), a interpretare e tradurre un autore non ci si improvvisa, è un lavoro serio e complicato, un appello all’organizzazione quindi: per favore l’anno prossimo assumete interpreti professionisti (questo senza dare nessuna colpa ai giovani “interpreti” di questa edizione, semplicemente non è il loro lavoro).

Per finire con gli incontri: belli anche quelli su Le foto che hanno segnato un’epoca raccontate con sensibilità e curiosità da Roberto Vitale per Becco Giallo, e sulla filosofia nei videogiochi a cura di Tommaso Ariemma per Tlon Edizioni, e, giusto per non farci mancare niente, il vostro Armadillo di fiducia ha seguito perfino un incontro tra i più affollati, quello tra Elodie e Milo Manara, dove la prima – coadiuvata da Valeria Parrella – ha esaltato la forza del (corpo) femminile, rigettando banalmente al mittente misticismo et similia, lì dove invece il secondo non ha fatto altro che confermare il suo amore per il (corpo) femminile, rigettando mortificato al mittente fantasmatiche accuse di maschilismo, che comunque nessuno gli ha mosso, figuriamoci. 

Elene Usdin, “René·e addormentata nel bosco”.

Per tornare alle mostre, oltre a quella organizzata da Igort per gli autori Oblomov, c’è anche proprio quella di Igort dedicata ai suoi viaggi per il mondo, quella dedicata alle tavole originali del succitato Neaud, poi c’è il Topolino di Casty e gli incredibili incubi di Daniele Serra, per non parlare della commovente mostra dedicata al grande e compianto Alfredo Castelli, l’uomo con la barba, a cui quest’anno è stato giustamente conferito anche il Premio Speciale Comicon alla Carriera 2024. Tra una mostra e un incontro è stato bello anche indossare un visore – grazie a Gold Enterprise – per rivivere i festeggiamenti dello scudetto napoletano o farsi 2 risate con gli scarabocchi di Maicol&Mirco, ma anche vedere qualche vecchio film come Donnie Darko di Richard Kelly, che a distanza di tanti anni ancora mantiene il suo fascino oscuro, o il recente Dalì immaginato da Quentin Dupieux, un viaggio surreale e labirintico nella mente del folle artista catalano, o la presentazione de Il segreto di Liberato,  film di Francesco Lettieri di prossima uscita sul misterioso cantante napoletano a cui per le sequenze animate hanno collaborato Giuseppe Squillaci e LRNZ, ma soprattutto il Metropolis di Fritz Lang magnificamente musicato dal vivo dai giovanissimi virtuosi Treetops. Anche per la sezione cinema, un piccolo appunto all’organizzazione: va bene, gli entusiasti youtuber sono bravi e attirano un sacco di ragazzin*, ma si potrebbe avere un po’ più di varietà di punti di vista, o è proprio necessario siano onnipresenti sempre gli stessi a ogni incontro, manco fossimo nel salotto di casa nostra?

Infine, secondo la giuria di quest’anno presieduta dall’autore francese Baru e composta dallo scrittore Matteo Bussola, dalla libraia ed educatrice Grazia Gotti, dallo scrittore Simone Laudiero e dall’attore Lorenzo Zurzolo, ecco i Premi Micheluzzi – ovvero quelli nazionali – di questa edizione: Stacy di Gipi (Coconino Press, miglior fumetto), Kroma di Lorenzo De Felici (SaldaPress, miglior serie), Fortezza Volante di Lorenzo Palloni (minimum fax, miglior sceneggiatura), Diario di una cagna di Grazia La Padula (Oblomov Edizioni, miglior disegno), Nato in Iran di Majid Vita (Canicola Edizioni, miglior opera prima), The Kids Are Alright di Barbara Giorgi e Michela Bruno (Diamond Dogs, Nuove Strade – miglior autoproduzione); mentre questi sono i Premi Comicon, ovvero quelli internazionali: Skin di Peter Milligan e Brendan McCarthy (Red Star Press, traduzione di Flavio Frezza, miglior edizione di un classico), Entra. La bellezza della parole: Un viaggio nell’essenza delle relazioni umane di Will McPhail (Tunué, traduzione di Francesco Pacifico, miglior graphic novel straniero), Hirayasumi di Keigo Shinzo (J-Pop Manga, traduzione di Matteo Cremaschi, miglior serie straniera), Il postino spaziale di Guillaume Perreault (Sinnos, traduzione di Federico Appel, Giovani letture), Astrologia di Liv Stromquist (Fandango, traduzione di Samanta K. Milton Knowles, miglior traduzione – Sophie Castille Award).

Woshibai.

In tutta questa meraviglia, però qualcosa stona, una piccola nota a margine, senza polemica: è proprio necessario che in una fiera piena di ragazzin* ci siano stand dell’esercito e delle forze dell’ordine, nonché un venditore di sigarette elettroniche che invita – si spera solo maggiorenni – a provare? Apprezzabile invece il Ministero della Cultura che regala i Fumetti nei Musei editi dalla Coconino.

ripetizione.

22 aprile 2024 § Lascia un commento

«Per me l’atto più importante della tragedia è il sesto: il risorgere dalle battaglie della scena, l’aggiustare le parrucche, le vesti, l’estrarre il coltello dal petto, il togliere il cappio dal collo, l’allinearsi tra i vivi con la faccia al pubblico».
(Wisława Szymborska, poetessa)

Un uomo viene ucciso, in modo efferato, dalla notte dei tempi non è raro che accada: si tratta di omicidio, dietro ci possono essere svariate ragioni, omofobia, per esempio, ma l’assassino può uccidere anche per rabbia, per noia, per paura, forse anche per passione, addirittura per disperazione: il risultato non cambia, la morte. I morti non parlano più, ma ascoltano quello che viene detto, guardano ciò che accade, almeno fino a poco prima che la vita non scompaia definitivamente. Come raccontare tutto questo, come può la realtà essere rappresentata sulla scena?

Si tratta di cronaca nera, oggi si chiama così, delitti di cui sono i pieni i giornali, i telegiornali, i podcast. In passato era tragedia e il teatro se ne appropriava per il proprio racconto: qualcuno moriva e il pubblico cominciava a chiedersi perché, il drammaturgo cominciava a indagarne le cause: chi è stato? gli dei si sono adirati? l’amante è stato tradito? il re ha rubato? Dalla notte dei tempi, l’uomo non cambia, continua a uccidere, e sempre per le stesse ragioni: amore, potere, follia.

La forza dello spettacolo di Milo Rau, potente e profondo, sta nel prendere il presente e raccontarlo attraverso mezzi e modi che si rifanno al passato lontano di un teatro classico, ma allo stesso tempo questi mezzi e modi vengono proiettati prepotentemente nel futuro, attraverso moderne soluzioni sceniche e soprattutto attraverso l’uso della ripresa video in diretta (ma non sempre) che amplifica ed espande il racconto aggiungendo un ulteriore strato di ambiguità alla realtà già di per sé incerta.

Uno spettacolo che vuole raccontare la storia del teatro mostrando allo spettatore proprio il metodo attraverso cui viene costruito e si costruisce, la ripetizione che diventa video ma anche rievocazione continua di ciò che è accaduto attraverso le repliche. Gli attori sono già in scena, ma non sono ancora personaggi: quando è che lo diventano? C’è ancora il casting da affrontare, cosa è disposto a fare un attore in uno spettacolo? Si spoglierà nudo, picchierà, ucciderà? Sarà capace di attraversare i cinque atti canonici per arrivare a quello più difficile e tremendo, il sesto, quando occhi negli occhi con lo spettatore si chiederà cosa è successo? Ma soprattutto, lo spettatore che assiste alla sua morte sarà capace di salvarlo, o si limiterà a un pilatesco applauso?

Raccontandoci come funziona il teatro, Milo Rau crea una tensione continua tra realtà e finzione, un dialogo che moltiplica piani e significati, spesso spingendo lo spettatore a chiedersi cosa stia vedendo: è reale? è una ripresa vera? sta recitando, o no? La nebbia si spande sul palco, un personaggio canta una struggente e disperata canzone d’amore, un’auto piomba nel buio, dei fari ci accecano, la violenza si scatena nella morte: ecco, lo spettacolo è fatto. La solitudine dei vivi, il dolore altrui, la banalità del male, l’anatomia di un crimine, un coniglio: cinque atti, e poi? Un cappio scende dall’alto, un uomo si uccide o viene ucciso: lo spettatore si limita a guardare, ma cosa siamo poi disposti a fare in quanto esseri umani?  

THE REPETITION
HISTOIRE(S) DU THÉÂTRE (I)
ideazione, testo e regia Milo Rau
con i performer Sara De Bosschere/Kristien de Proost, Suzy Cocco, Sébastien Foucault, Fabian Leenders, Johan Leysen/Sabri Saad El Hamus, Tom Adjibi/Adil Laboudi
ricerca e drammaturgia Eva-Maria Bertschy
collaborazione alla drammaturgia Stefan Bläske, Carmen Hornbostel
scenografia e costumi Anton Lukas
video Maxime Jennes, Dimitri Petrovic
luci Jurgen Kolb
assistente alla regia Carmen Hornbostel
assistente alla drammaturgia François Pacco
foto di scena Hubert Amiel
produzione International Institute of Political Murder (IIPM), Création Studio Théâtre National Wallonie-Bruxelles sostenuti da il Fondo Culturale della Capitale di Berlino, Pro Helvetia, Fondazione Ernst Göhner e Kulturförderung Kanton St. Gallen
in coproduzione con Kunstenfestivaldesarts, NTGent, Théâtre Vidy-Lausanne, Théâtre Nanterre-Amandiers, Tandem Scène Nationale Arras Douai, Schaubühne am Lehniner Platz Berlin, Théâtre de Liège, Münchner Kammerspiele, Künstlerhaus Mousonturm Frankfurt a. M., Theater Chur, Gessnerallee Zürich, Romaeuropa Festival con il supporto di ESACT Liège

rito.

1 marzo 2024 § Lascia un commento

A un certo punto dello spettacolo, durante l’interrogatorio della donna, anzi un attimo prima che questo inizi, questa donna – la cui unica colpa probabilmente è proprio quella di essere donna – si gira verso il pubblico e urla, muta: le luci si spengono e tutto quello che vediamo è il suo viso bianco, perso tra angoscia ed estraniamento. Ci troviamo di fronte a quello che il lucido pensatore Mark Fisher probabilmente avrebbe definito un eerie cry, ovvero un urlo inquietante, qualcosa che non dovremmo udire perché proveniente da un altrove che non appartiene al nostro mondo. Un’immagine/fotogramma che ritroviamo anche in Lost Highway di David Lynch, l’uomo pallido di cui non si sa nulla, e altri riferimenti visivi – voluti o meno – al film del precursore Ingmar Bergman da cui è tratta questa rappresentazione si ritroveranno anche nel cinema di Stanley Kubrick, vedi il fallo/naso di A Clockwork Orange e le maschere di Eyes Wide Shut. Quasi a voler definire una visione immaginaria comune.

In origine film per la televisione, vero e proprio cinema da camera diviso in nove quadri per quattro personaggi (più uno muto interpretato dallo stesso regista  che però non ritroviamo qui a teatro), Il rito ci pone di fronte a una situazione ai confini della realtà, a cominciare dal calore estremo che provano i personaggi, ma  soprattutto per quelli che sono gli esiti finali. Luci e musiche contribuiscono all’inquietante di cui sopra, così come i colori: una dominanza di bianco, nero, grigio. 

La messinscena vede protagonisti tre clown dionisiaci e amorali, sono stati convocati da un giudice  che deve valutare il grado di oscenità dello spettacolo che eseguono, cosa per cui  sono stati denunciati (o la vera ragione è che guadagnano troppo senza versare le dovute tasse?). L’azione li vede interrogati prima insieme, poi singolarmente, intanto il pubblico li conosce meglio attraverso i vari dialoghi privati che si svolgono a due, la donna prima con un uomo e poi con l’altro, l’uomo faccia a faccia con l’altro uomo. Subito si intuisce qualcosa che non va, o meglio, che  non quadra: fra i tre sussiste il più classico dei triangoli, quello amoroso, c’è qualche malumore, sì, ma fondamentalmente sembra che la cosa proceda senza scossoni, anzi il marito della donna vuole addirittura liberarsene per lasciarla all’altro, che però risponde alla cosa alquanto interdetto. Comunque lì dove c’è accettazione non c’è colpa, e va bene anche la follia.

La colpa è nello spettacolo rappresentato, lì dove – secondo la cultura predominante –  può essere sovversivo e osceno, è per questo che il giudice crudele e borghese  vuole capire, interrogare, talvolta anche il pubblico, sembra, sparandogli un faro accecante negli occhi. Gli uomini rispondono con più o meno voglia, più o meno razionalmente, più o meno violentemente; il “problema” è la donna, non a caso l’unica vestita di nero, spontanea e lasciva, seducente e lussuriosa, tentatrice e sensuale s’offre in reggicalze alla giustizia come se questa potesse capirla e addirittura assolverla. Il marito cercherà in tutti i modi di evitare l’interrogatorio della moglie, fino ad arrivare a corrompere il giudice: l’interrogatorio si farà lo stesso, ci sarà l’urlo inquietante, le regole saranno sovvertite, si cercherà di curare tramite legge e medicina la follia della donna falsa e peccatrice, ma l’esito finale della messa in scena sarà fatale, senza scampo. Nota a margine: impressionante il fatto che il monologo/confessione della donna sia tratto quasi interamente da una lettera ricevuta realmente dal cineasta svedese, lettera a cui lo stesso non fu mai capace di rispondere per l’imbarazzo di rendersi ridicolo per il fatto di non padroneggiare altra lingua che lo svedese, incomprensibile alla mittente della lettera.

Nonostante l’apparente freddezza enigmatica, attraverso questo apologo, un vendicativo Bergman ci mostra ferocemente il soccombere della legge all’arte che ammalia comunque tutto e tutti, anche la censura: è già cominciato lo spettacolo?, chiederà inconsapevole l’indifeso giudice, che non riuscirà infine ad arrestare nessuno. Molto bravi gli attori, potente la scenografia metafisica che riesce a rendere molto bene la diversità degli ambienti, e quanto possa essere separata la legge dal mondo reale: si è costretti ad arrampicarsi per raggiungerla, ma essa stessa finirà poi per precipitare. Forse giusto un po’ troppo lungo, visto che Bergman riusciva a dire tutto in poco più di un’ora, ma va benissimo così, a dispetto di qualsivoglia Baricco che ultimamente ha definito Bergman “inguardabile”, consapevole però egli stesso della stupidaggine detta.

Il Rito
di Ingmar Bergman
traduzione di Gianluca Iumiento
adattamento e regia Alfonso Postiglione
con Elia Schilton, Alice Arcuri, Giampiero Judica, Antonio Zavatteri 
scene Roberto Crea
costumi Giuseppe Avallone
musiche Paolo Coletta
disegno luci Luigi Della Monica
partitura fisica Sara Lupoli
aiuto-regia Serena Marziale
foto di scena Anna Abet
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Ente Teatro Cronaca, Campania Teatro Festival – Fondazione Campania dei Festival

barbe.

25 febbraio 2024 § Lascia un commento

«Il tempo che corre ma che non dobbiamo rincorrere ma trascorrere».
(Saverio La Ruina, attore e regista)

Il tempo si ferma solo nel cimitero, luogo dove non corre nessuno e nessuno urla, viali ombreggiati dove regna il silenzio e il passo accorto. Lumini che segnano una strada che porta da chi non c’è più, così comincia questa Via del Popolo, un ricordo di quello che non c’è più, un tempo ormai andato che non c’è orologio che possa fermare.

Sul fondo del palco quello che appunto sembrerebbe un orologio, ma in realtà è un cronometro, l’unico oggetto che può regalarci l’illusione di fermare il tempo: premi un pulsante ed ecco, le lancette si fermano, hai ancora tutta la vita davanti, e qui magari la fisica quantistica potrebbe dirci molto, ma non è questo né il luogo né il punto. Accontentiamoci piuttosto del tempo liquefatto di Salvador Dalí, un tempo interiore che continua a parlarci di ciò che siamo stati, siamo, e forse saremo. Il tempo continua a scorrere, i ricordi restano.

foto di Carlo Maradei.

Solo in scena, l’attore e regista calabrese Saverio La Ruina – le cui parole sembrano voler strenuamente combattere l’omen ironicamente insito nel nomen – ci racconta una storia del tempo che fu, partendo dalla sua infanzia/adolescenza per poi allargarsi nel presente di tutti noi. L’avvio è dato proprio dalla passeggiata nel cimitero con un amico che ricorda di quando erano bambini la cui felicità semplice era data da gustose paste alla crema, e come dimenticare chi queste paste le dava e chi le negava? Poi venne il bar di famiglia, e con esso altri problemi e responsabilità, ma almeno quelle – le paste – non mancavano mai.

foto di Carlo Maradei.

C’è stato il tempo dell’infanzia, quindi, quando via del popolo la percorrevi in trenta minuti tanto l’affollamento dei negozi al dettaglio: il falegname così vicino alla salumeria che la mortadella sapeva di legno e i trucioli di pane, il fabbro innamorato della merciaia, l’elettricista che risolveva magicamente i problemi, i bar dove gli ubriachi volevano essere ancora più ubriachi, un ristorante accogliente, addirittura un cinema con un proiezionista esperto e piuttosto originale (montava i film a piacere suo). È venuto poi il tempo del centro commerciale, e la strada da 30 minuti si è rimpicciolita in 2, le saracinesche si sono fatte lapidi, il tempo si è guadagnato, sì, ma per cosa. Niente più Living Theatre in giro per la Calabria, niente più Aldo Moro la cui morte pose fine alla lotta e alla speranza.

foto di Angelo Maggio.

Come si diceva prima, però questa è soprattutto una storia personale, prima che nostra, lì dove con sapiente montaggio alternato e tempi (comici) perfetti La Ruina ci racconta magico e struggente anche del padre che a un certo punto cadde in un fosso e passò abbastanza bene la notte cantando e dormendo, per ritrovarsi poi come foglia stanca su un albero. Tenerissimo e malinconico, ma anche dolcemente divertente, un commosso La Ruina ci racconta col sorriso sulle labbra dell’ultima barba fatta al padre, una barba perfetta per chi è ormai pronto ad andare. L’ultima domanda rimane sospesa nell’aria, attacca la musica, si alza il vento. Il grande freddo, sì, però quanta felicità insieme. 

VIA DEL POPOLO – Vincitore del Premio UBU 2023 per il Miglior Nuovo Testo Italiano
di e con Saverio La Ruina
disegno luci Dario De Luca
collaborazione alla regia Cecilia Foti
audio e luci Mario Giordano
allestimento Giovanni Spina
dipinto Riccardo De Leo
amministrazione Tiziana Covello
logistica Rosy Parrotta
organizzazione generale Settimio Pisano
produzione Scena Verticale

pasolini.

16 febbraio 2024 § Lascia un commento

«Ma Pasolini non voleva essere profeta: il suo era un grido di battaglia che bisognava raccogliere per fronteggiare il declino anziché trattarlo come un visionario jettatore».
(Marco Tullio Giordana, regista)

Esterno notte, un grande prato verde. Un poeta passa silenzioso tra il pubblico ancora intento a giocare coi cellulari e sale sul palco, quasi invisibile in un buio onirico. C’è una scrivania sul lato, il poeta comincia a scrivere, a leggere, a interrogarsi, a ricordare, in un continuo dialogo con se stesso e un pubblico sempre presente nonché necessario. Comincia così l’emozionante e intenso ricordo e omaggio in forma di monologo che il regista Marco Tullio Giordana e l’attore Luigi Lo Cascio porgono delicatamente ma con forza a Pier Paolo Pasolini, in scena dal 14 febbraio fino al 25 al Teatro Mercadante di Napoli.

A Pa’, vieni a tirare due calci… come avrebbe detto uno qualsiasi degli amati ragazzetti di borgata per invitare Pasolini a giocare a calcio, da qui il nome dello spettacolo, un diminutivo tenero e perentorio al tempo stesso. Calci e parole, nello spettacolo c’è tutto, per un’ora portata incredibilmente avanti senza esitazioni dal solo Lo Cascio, coadiuvato in scena giusto da qualche apparizione del giovane Sebastien Halnaut. Una scena – curata con maestria da Giovanni Carluccio – che diventa poi essa stessa personaggio nel momento in cui cambia e si trasforma.

Le parole sono tutte del poeta di Casarsa, per quella che si può definire una vera e propria autobiografia in versi che attraversa tutti i momenti vitali, ma anche oscuri, di Pasolini, dal ricordo del giovane fratello ferocemente trucidato da quelli che avrebbero dovuto essere dalla sua stessa parte, passando per un commovente e amoroso ritratto della madre, quella madre tanto amata e mai dimenticata, fino ad arrivare alla morte violenta per auto, senza nemmeno nascondere il processo in cui il poeta confessa di cercare se stesso, la propria vita, in quei giovani che forse vedevano in lui un fratello maggiore da ammirare ma allo stesso tempo un uomo da cui scappare.

Il prato verde iniziale va via via riempiendosi non solo di parole, ma anche di rifiuti, le lucciole scompaiono per lasciare spazio alla vorticante esplosione di una spazzatura moderna, troppo moderna, un’immagine reminiscente dell’Antonioni di Zabriskie Point: forni a microonde, frigoriferi, lavatrici, materassi, niente che non si possa vedere ingombrare le strade che attraversiamo ogni giorno. Abbiamo creduto di essere liberi, siamo finiti per diventare schiavi delle nostre stesse catene. In questo San Valentino curiosamente coincidente con il giorno delle Ceneri, è sembrato davvero di vedere e sentire Pasolini, fragile e reale nel suo vestito elegante, rabbioso e poetico, amoroso e penitente. In quest’epoca di comunicazione totalizzante che ai poveri toglie il pane e ai poeti la pace, siamo ancora capaci di comprenderlo? Nella disperazione, un po’ di speranza.

«La morte non è nel non poter comunicare, ma nel non poter più essere compresi».
(Pier Paolo Pasolini, scrittore)

PA’
drammaturgia Marco Tullio Giordana, Luigi Lo Cascio
da testi di Pier Paolo Pasolini

regia Marco Tullio Giordana

con Luigi Lo Cascio
e la partecipazione di Sebastien Halnaut

scene e disegno luci Giovanni Carluccio
costumi Francesca Livia Sartori
musiche Andrea Rocca
aiuto regia Luca Bargagna
foto e video Serena Pea

produzione Teatro Stabile Veneto Teatro Nazionale
direttore di scena Federico Paolo Rossi
macchinista Gianluca Quaglio
elettricista Nicolò Pozzerle
sound Andrea Lambertucci
sarto Gabriele Coletti
amministratrice di compagnia Federica Furlanis

Si ringraziano
gli eredi di Pier Paolo Pasolini Maria Grazia Chiarcossi e Matteo Cerami
la casa di moda Missoni e Maurizio Donadoni

macchia.

1 febbraio 2024 § Lascia un commento

«La macchia è un testo in cui c’è la volontà di non ascoltarsi che qualcuno può tradurre con teatro dell’assurdo; ma per quanto mi riguarda è molto lontano, l’assurdo, qui. L’assurdo in qualche modo conforta. La macchia non può confortare. Il personaggio chiamato S. indossa un abito e viene da un posto (il piano terra del palazzo in cui vive lui e in cui vive la coppia a cui si rivolge per il problema presente sul soffitto del suo bagno) che lo caratterizzano e lo caratterizzeranno agli occhi dei due, agli occhi di Lui e Lei in maniera imperitura. Non si scappa, da lì non c’è frontiera che puoi superare, quando qualcuno non vuole ascoltarti».
(Fabio Pisano, autore e regista)

Tre personaggi in scena, una scena molto scarna, scarsamente illuminata. C’è un televisore, non si vede, però è presente. Gli oggetti in scena sono essenziali, tre sedie per i tre personaggi, un paio di luci, quello che sembra essere un asse da stiro così bianco che quasi splende, sopra ci sono poggiate una brocca d’acqua e tre bicchieri. Lo sfondo è buio, talvolta appare qualche parola. C’è tensione, nell’aria. Lo spazio è limitato.

Sembra essere una normale serata in famiglia, il marito che guarda il ciclismo in tivù, la moglie che prepara la cena. Si parla di un figlio, ma esiste davvero? Non importa, lì dove la realtà non è quel che sembra. Certo, le sedie sono tre, così come i bicchieri, ma questo fantomatico figlio non apparirà mai, a differenza del vicino del piano di sotto, in carne, ossa e problemi. Molto più reale di quello che sembra accadere in questo interno, o meglio, molto più reale di ciò che appare assurdo.

La macchia sul soffitto del suo bagno è reale, si allarga, scurisce il colore del soffitto, scrosta l’intonaco, potrebbe dar vita a una muffa, potrebbe provocare un disastro. Una situazione (a)normale in qualsivoglia condominio, quella di avere a che fare con i vicini: una normalità che può però repentinamente scivolare nel baratro più assurdo. Senza scadere in truculenti fatti di nerissima cronaca, basta avere una minima dimestichezza con autori come Polanski, Kafka, o anche Lynch per avere subito contezza di ciò: un assurdo che rispetto alla dura realtà  magari potrebbe anche esercitare un confortevole fascino, eppure la macchia resta lì, si allarga, si scurisce sempre di più, come un abisso che più lo guardi più ti rimanda un riflesso: il tuo.

I tre personaggi di questo spettacolo parlano, parlano, parlano, ripetono il copione fino allo sfinimento come se volessero reificare la realtà detta, nessuno si perde d’animo eppure nessuno capisce, nemmeno si guardano in faccia, ognuno è altrove. L’inquilino del piano di sotto vorrebbe solo capire se i tubi del bagno di sopra perdono, la coppia vorrebbe tutt’altro, la moglie cerca la rucola per una cena rinfrescante, c’è afa, il marito è impegnato a guardare la tappa in salita, la più faticosa, anche per il pubblico. Una scritta appare: è meglio non comprendersi attraverso le parole, piuttosto che attraverso il silenzio, ma certo questo è faticoso, sì.

Cosa vuole davvero l’inquilino di sotto, cosa vuole davvero la coppia? Forse l’uno vuole semplicemente essere accettato, gli altri vogliono semplicemente un figlio. Una frontiera li divide, invalicabile. Nessuno ascolta davvero, meglio mantenere le distanze, meglio tornare a vestire i propri panni, ricoprire il proprio ruolo: c’è chi ordina e c’è chi esegue, chi deve liberarsi di qualcosa e chi è preposto a liberarsi della cosa. Il tempo passa, imperterrito, allar(g)andosi, si dilata, implacabile: meglio accontentarsi l’un l’altro. Meglio prendere sulle spalle la propria croce, una croce pericolosissimamente somigliante a una lapide, e portarsela via. Se macchia c’è, che si allaghi tutto, alfine. Tutto è umido, si legge sullo schermo buio, e nessuno può cambiare ciò che (non) è. Sipario.

Interpretato da Francesca Borriero, Michelangelo Dalisi, Emanuele Valenti
Costumi Rosario Martone
Scene Luigi Ferrigno
Disegno luci Paco Summonte
Assistente alla regia Francesco Luongo
Drammaturgia e regia Fabio Pisano
Una produzione Liberaimago
Foto di scena Salvatore Pastore  

[visto al Teatro Area Nord di Napoli, sabato 27/1/2024]

neiwiller.

30 ottobre 2023 § Lascia un commento

 Le differenze esistono, bisogna combattere, le differenze esistono, continua a urlare dal buio Antonio Raia nella Sala Assoli durante l’apparente soliloquio con Antonio Neiwiller, mentre da fuori provengono urla e schiamazzi di giovani in fila per 1 spritz a 1 euro, fuori l’inferno e noi chiusi dentro, al buio, che resistiamo, le orecchie tese al fiato che esce da un sassofono, alla carezza che fuoriesce dagli oggetti percussivi di Walter Forestiere, alla voce potente e stentorea di Neiwiller che ci chiede dove sono andati a finire, i maestri? Cerchiamo di ascoltare, e certo non è un peccato essere giovani, ma esserlo così? Il tunz-tunz estremo e vacuo a martellare le tempie, l’alcol nel sangue oltre il consentito, forse solo per dimenticare, ma non sarebbe meglio ricordare? Una parola, un suono. Le figurine di terracotta e cemento di cyop&kaf sembrano prendere vita, piccole e illuminate, è la luce a dare la vita nel buio, in questo buio resistente in cui noi resistiamo. Alcuni obnubilati euforici credono si tratti di una discoteca, fanno per scendere, fiondarsi dentro, nascondersi ancora di più, per lasciar andare fuori chissà cosa: che effetto farebbe su di loro, la memoria bucata, da un suono, una voce… Magari un giorno, o una notte, sì, si vedrà.

scudetto.

10 Maggio 2023 § Lascia un commento

«Siamo emozionatissimi per questa edizione e questo record che non avrei mai immaginato di raggiungere quando nel 1998 organizzammo insieme a pochi amici la prima edizione di COMICON. Il nostro festival è frutto di un grande lavoro di squadra, pieno di giovani e ricco di entusiasmo. Oltre a occupare l’intera struttura fieristica con espositori e mostre legate alla Nona Arte, abbiamo invaso la città con 20 esposizioni nei principali istituti internazionali di cultura. Ogni giorno abbiamo avuto 600 collaboratori diretti e 400 esterni, e abbiamo occupato in via diretta 900 notti in strutture ricettive. Tanti i visitatori internazionali, come la delegazione del Governo Coreano con cui abbiamo siglato un accordo di collaborazione». Claudio Curcio, presidente di COMICON

illustrazione di Mirka Andolfo

Comicon 2023, 28 aprile – 1 maggio, XXXIII edizione, 4 giorni di fumetto, cinema e serie tv, videogame, gioco (bellissime certe architetture Lego allestite dai ragazzi di BrickOut), musica e cosplay; l’edizione più grande di sempre con numeri mai raggiunti: questa edizione si chiude infatti con un record di 170.000 visitatori distribuiti su oltre 30.000mq coperti, 50.000mq di spazio all’aperto, un teatro da 850 posti al coperto ed un’arena all’aperto da 5.500 posti a sedere, per non parlare dei 380 espositori, più di 300 ospiti, oltre 400 eventi e 7.000 accreditati tra i professionisti dei diversi settori. Un successo incredibile per l’International Pop Culture Festival di Napoli, una città che sembra essere in stato di grazia.

Luca Boschi

Sicuramente non tutto è filato liscio, la grazia dovuta alla stagione calcistica e lo scudetto praticamente assicurato ha messo a dura prova la città e chiunque abbia provato a fare qualcosa negli stessi giorni di una partita del Napoli: la domenica divisa tra calcio e cosplay in effetti ha riempito spazi e mezzi pubblici all’inverosimile, ma quanto è stato bello prendere un treno azzurro insieme a centinaia di appassionati cosplayer che in qualche caso si sono andati a mescolare a tifosi e ultras? Solo a Napoli, qui e adesso. Qualcuno si è lamentato, e pazienza, ma di certo i mezzi pubblici non sono di competenza dell’organizzazione del Comicon, se proprio si vuole fare qualche appunto c’è da dire che per un tale afflusso di gente bisogna escogitare un metodo che velocizzi l’entrata, non è possibile infatti che ragazzini e famiglie aspettino così tanto per entrare, e poi – per favore – più attenzione e cura per le mostre, la passione c’è e si vede, ma è fastidiosissimo leggere così tanti refusi in un pannello esplicativo.

Giorgio Cavazzano

Naturalmente con dimensioni così enormi non si è potuto fare tutto, le cose sono tante e noi siamo solo uno, si potrebbe dire parafrasando quel qualcuno molto amato, quindi il vostro Armadillo Furioso di quartiere più o meno vi scriverà solo di quello che è riuscito a vedere e godere. Le mostre, appunto, e partiamo da quella del Magister Giorgio Cavazzano, uno dei più celebri e innovativi disegnatori al mondo, famoso e tradotto in tutto il mondo per i suoi capolavori Disney ma conosciuto anche per serie umoristiche come Altai & Jonson creata con il mitologico Tiziano Sclavi; la sua mostra denominata Galassia Cavazzano. I mondi elastici di Giorgio Cavazzano ne ripercorre la carriera di eclettico creatore di universi in bilico fra realismo e deformazione plastica, con tavole originali, materiali pubblicitari, opere inedite, oggetti, disegni e fotografie. Da magister di questa edizione, Cavazzano ha inoltre curato 6 pezzi (poco) facili. Sei talenti per il fumetto italiano, ovvero: Daniele Caluri, Stefano Intini, Quasirosso, Giulio Rincione, Maurizio Rosenzweig, Greta Xella. Infine, Cavazzano ha anche realizzato la copertina variant di Topolino, omaggio esclusivo dedicato alle forti emozioni calcistiche che la città di Napoli sta attualmente vivendo grazie ai successi della propria squadra del cuore.

Brecht Vandenbroucke

Tra le principali mostre presenti alla Mostra d’Oltremare troviamo poi quella vietata ai minori di 18 anni perché dedicata a Le fiabe nel fumetto erotico italiano, la mostra su Jim Lee, The Italian Way, dedicata allo speciale rapporto che il talentuoso fumettista statunitense intrattiene con l’Italia, la mostra di Simone Bianchi – La musica dei corpi – artista che molto spesso ha incrociato la propria arte con la musica (vedi Caparezza), le surreali Shady Stories di Brecht Vandenbroucke, Odio tutti! Fumetti demotivazionali per sorridere meno (dai personalissimi racconti introspettivi di Caterina Costa e Wallie, alle parodie sociopolitiche a sfondo “religioso” di Don Alemanno, dall’oscuro alter ego di Percy Bertolini alle gelide freddure di Daw e di Pierz, fino al racconto dell’attualità attraverso l’umorismo disilluso di Claudio Marinaccio e ai meme falsamente allegri di Disegni Cinici) che raggiunge lo scopo con sarcasmo e ironia e infine, ultima ma non ultima, la commovente mostra dedicata allo scomparso ma non dimenticato Luca Boschi. Funambolo dell’editoria di fumetto. 

Lynch/Oz di Alexandre O. Philippe

Per quanto riguarda videogiochi, cultura asiatica, cinema e serie tv, come si diceva più su l’offerta è davvero enorme e non si può fare tutto, ma si è comunque riusciti a godere dell’ottimo documentario Lynch/Oz di Alexandre O. Philippe che in sei capitoli tematici affidati ognuno a un regista diverso viene spiegato e raccontato come il magico film di Victor Fleming con protagonista una giovanissima Judy Garland, Il Mago di Oz, abbia influenzato l’onirico e misterioso cinema del maestro David Lynch, una vera e propria chicca che il Comicon ha presentato in anteprima. Così come una gustosa anteprima è stata anche quella di Unicorn Wars del fumettista e regista spagnolo Alberto Vazquez, una feroce allegoria che mettendo unicorni contro orsetti ci racconta molto della guerra umana, visti i protagonisti si potrebbe pensare a qualcosa di dolce e carino, ma questo non potrebbe essere più lontano dal risultato finale, un film d’animazione splatter e sanguinolento che tra citazioni di Kubrick e derive lisergiche stupisce dicendo molto anche di crescita e rapporti familiari oltre che, appunto, di guerra.  

Unicorn Wars di Alberto Vazquez

Infine, menzione particolare ai banchetti dedicati all’autoproduzione che molto spesso nell’enormità di queste fiere mostrano cose più piccole, ma estremamente interessanti: vedi Confini, la raccolta di 4 storie a fumetti (Mario Damiano, Andrea De Franco, Federica Ferraglia, Adriana Marineo) curata da Miguel Angel Valdivia per la napoletana Monitor Edizioni e vincitore del Premio Micheluzzi Nuove Strade – Miglior Autoproduzione, e l’originalissimo “album ricordo” pubblicato da Barta Edizioni e assemblato con foto perdute e ritrovate su cui le artiste Gardums & Ki sono intervenute con scritte e disegni; oltre a queste opere, il vostro Armadillo sempre affamato e furioso si è portato a casa due piccoli gioiellini della meritevole Canicola di Bologna, Solitudine (stranianti geometrie di Josephin Ritschel) e La morte alla calcagna (colori acidi di Marko Turunen): sfogliateli, non potrete fare a meno di comprarli.

Confini, raccolta curata da Miguel Angel Valdivia

brachetti.

2 aprile 2023 § Lascia un commento

Restare bambini per sempre, continuare a emozionarsi e meravigliarsi, leggeri e felici, questo il messaggio che a fine spettacolo vuole consegnarci Arturo Brachetti – leggenda del cosiddetto quick-change – con il suo Solo, se messaggio deve per forza esserci, basta anche solo l’emozione di fronte a uno spettacolo del genere, che va visto almeno una volta nella vita, possibilmente.

Benvenuti a casa mia, dice Brachetti che dialoga spesso e volentieri con il pubblico, e la casa non è certo metaforica, o meglio, se vogliamo possiamo quasi considerarla una simbolica sineddoche, una piccola cosa che rappresenta la vita intera: la casa sul palco c’è per davvero, le varie stanze le visitiamo per davvero: questo l’espediente che Brachetti usa per dare libero sfogo a tutte le sue arti magiche: illusione, sand painting, ombre cinesi, chapeaugraphie, mimo/ombra, e ovviamente trasformismo (oltre 60 personaggi interpretati!).

Eccoci quindi davanti alla televisione, in salotto, a guardare tutte le serie tv che abbiamo visto proprio tutti: La famiglia Addams, Wonder Woman, Star Trek, Hulk, giusto per nominarne qualcuna, ogni serie un personaggio, e superfluo dire che Brachetti li fa proprio tutti, talvolta cambiandosi anche proprio davanti ai nostri occhi.

La fantasia del nostro è potente e sfrenata, basta vedere quello che è capace di fare con un cappello bucato, è stato il nonno lungimirante a regalarglielo: è mai possibile che da un cerchio di stoffa escano fuori tanti personaggi? Possibile possibile, anzi possibilissimo: un soldato russo, un pirata, Napoleone e via così, verso mille mirabolanti avventure.

Per non parlare del bagno di casa Brachetti, lì c’è una vita intera declinata a mo’ di pranzo: primo, secondo, frutta e dessert: è incredibile come da bimbo si trasformi in vecchio, ma ormai l’incredulità è bella che andata, sospesa da un pezzo: non c’è che da godersi lo spettacolo, che il nostro giochi con la sabbia o con le luci laser, o che metta su un matrimonio con tanto di amante in cui lui è uno, nessuno e centomila: qui si ride anche con Pirandello caro Arturo, grazie di cuore!

Dal pubblico comunque incredulo non possono che partire le stesse domande di sempre: ma come fai, chi è il tuo parrucchiere, quanti anni hai, ma che importanza ha se c’è ancora un po’ di tempo per godersi l’incredibile jukebox brachettiano e volare grazie a questo meraviglioso e straordinario peter pan mai cresciuto in mille favole e più? Stasera quell’isola fatata e surreale esiste davvero, e mica solo grazie agli effetti speciali, alla scenografia e ai costumi… Lodevole anche il post-spettacolo solidale in cui Brachetti invita sul palco il Mago Sales, sacerdote che per primo ha insegnato a quel ragazzino un po’ sfigato che era i primi trucchi magici, affinché chi vuole possa donare qualcosa ai più sfortunati.

rinascita.

31 marzo 2023 § Lascia un commento

«Il percorso intrapreso da Maja è il percorso di tutte le donne. Maya sperimenta ciò che tutte le donne sperimentano quando i loro desideri vengono schiacciati. Vengono schiacciate dal dolore fino al momento in cui possono schiudersi e riaprirsi, pronte per una vita di maggiore consapevolezza, profondità e, naturalmente, gioia. La combinazione di relazioni femminili mostrata nel nostro spettacolo è autentica. Contiene amore, rabbia, delusione e guarigione, oggi associati all’intimità».
(Kornél Mundruczó, regista)

All’inizio sembra quasi una sit-com, di quelle che vediamo in televisione e poi commentiamo su facebook: la ripresa su schermo rafforza questa sensazione, così come le battute leggere tra una coppia in attesa della cosa più bella che può accadere nella vita di una coppia: una figlia. Ma quello che osserviamo non è uno schermo televisivo, noi siamo a teatro, e le battutine lasceranno presto il posto a una tensione che non ci abbandonerà più per tutta la durata dello spettacolo, noi e con noi gli attori, precipitandoci in quello che non può che essere un dramma familiare, la cosa più brutta che può accadere nella vita di una coppia: la perdita di una figlia appena nata.

La leggera sit-com lascia quindi posto a una potente e drammatica poetica bergmaniana, con qualche sprazzo lynchano lì dove la realtà si fa più irreale che mai: la voce di una figlia che continua a chiedere una vita che non è potuta essere, e a niente serve mettersi completamente a nudo, non tutti ne sono capaci, lo fa colei che più soffre, senza vergogna, la madre mancata, la sopravvissuta che cerca di restare a galla, eppure nessuno la ascolta, nessuno la vede, neanche le donne che la circondano: solidarietà, questa sconosciuta.

Lo spettacolo è corale, oltre alla coppia protagonista i cui primi piani iniziali – nonché ovviamente la disgrazia in sé – ce la fanno sentire molto vicina, troviamo la coppia della sorella, la madre delle due, e una non meglio identificata lontana cugina: sono passati 6 mesi, siamo nel pieno di quella che è a tutti gli effetti una riunione familiare, ma per cosa? Ognuno dei personaggi ha uno scopo, ognuno ha qualcosa che porta nascosto dentro, sofferenza, frustrazione o meschinità che sia. La casa sembra rimessa a nuovo secondo il miglior arredo possibile, eppure è piena di animali imbalsamati e cibo avariato, e la cena stessa finirà bruciata. Dov’è la felicità della famosa canzone? Resta solo il rimpianto, per qualcuno anche il rimorso.

Siamo a teatro, ma sembra proprio di vedere un film dipanarsi in tempo reale, e in questo sta tutta la potenza dell’unità d’azione/tempo/luogo: c’è un antefatto dato dalla tragedia in cui fa la sua comparsa anche un’incolpevole ostetrica, seppur alle prime armi, e poi tutto sarà nell’incontro familiare il cui avvio viene dato dall’arrivo della coppia che ha sofferto la perdita: il fatto che il marito metta piede in casa con una scarpa sporca di merda canina impestando tutto l’ambiente già dice tutto di ciò che accadrà in queste due ore, che finiranno tra vomito, rabbia, recriminazioni, umor nero e sconfitta: una famiglia che vorrebbe salvare le apparenze, anche solo vestendosi a lutto, magari anche riuscendo a ricavare qualcosa dalla tragedia vissuta, senza però chiedersi davvero cos’è il dolore, cosa farci, come superarlo. La sola che cerca e lotta per la luce è proprio colei che dovrebbe essere senza speranza, ma c’è sempre una luce che non si spegne mai.

Spettacolo pluripremiato ovunque, Pieces Of A Woman è in polacco con sovratitoli in italiano: un’esperienza forte da fare, ma necessaria in tempi in cui il massimo dell’emozione provata/richiesta sembra appunto data da post strappalacrime su facebook: la realtà è altrove, dentro di noi, nel solitario e intimo dialogo con un’opera di ingegno. Prodotto da TR Warszawa, la regia è di Kornél Mundruczó  l’adattamento di Kata Wéber, l’assistente alla drammaturgia è Soma Boronkay, la scenografia e i costumi sono di Monika Pormale, la musica è di Asher Goldschmidt, il direttore luci è Paulina Góral. In scena troviamo i bravissimi e intensi Dobromir Dymecki, Monika Frajczyk, Magdalena Kuta, Sebastian Pawlak, Marta Ścisłowicz, Justyna Wasilewska, Agnieszka Żulewska. La traduzione simultanea e scritta è di Patrycja Paszt, la traduzione dei testi di Jolanta Jarmołowicz. Le fotografie sono di Natalia Kabanow.

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