cyrano.

19 aprile 2024 § Lascia un commento

 «La storia è nota e sarebbe inutile cercare di ammantare di mistero ciò che è semplice come la vicenda di tre ragazzi. Lo sforzo della sinossi è superfluo. In Cirano deve morire le foglie dell’ultimo atto sono ormai cadute. A ben vedere però non tutto è perduto. Non tutti sono perduti. Nell’ultima scena dell’opera di Rostand Rossana vive. Quanto basta per innescare il secondo tentativo: raccontare di nuovo una storia già letta, mettere in scena una ripetizione (che sia l’ultima, perché Cirano deve morire), affinché emergano da essa le ambiguità e i significati, (le vere ambiguità e i veri significati), e questo senza che si sovrapponga, a portarci a fondo, l’interpretazione. L’interpretazione è una malattia mentale – chi l’ha detto? Sono d’accordo con lui». (Leonardo Manzan, autore e regista)

In quanti modi si può raccontare una semplice storia d’amore e non so che? In almeno 99 modi diversi, risponderebbe Monsier Queneau e gli farebbe Eco il fu Umberto nazionale, in almeno 99 modi diversi e oltre, col sopravanzare della modernità, ed ecco quindi che un testo classico di fine ‘800 può trasformarsi in qualcosa di nuovo e a tratti dirompente, se non altro apprezzabile per il coraggio di rompere con certo teatro classico la cui unica audacia può consistere nel piazzare a caso qualche canzoncina pop qua e là. Vincitore del Bando Biennale College – Registi Under 30 indetto dalla Biennale Teatro di Venezia 2018, così motiva Antonio Latella: «Leonardo Manzan ha avuto il coraggio di esporsi e di rischiare. Ha dimostrato di essere pronto ad attraversare quella linea gialla che delimita la zona di sicurezza per andare in zone anche pericolose, mai rassicuranti e ovvie. Al suo coraggio vogliamo aggiungere la nostra scommessa».

La storia è risaputa, nota, storia di amicizia e cuori spezzati: due uomini amano la stessa donna, uno brutto, uno stupido, la donna ama uno di loro, o forse tutti e due, i due muoiono, la donna resta sola, è spezzata. Si entra in un teatro vuoto e con le luci accese, i fantasmi sono già lì ad aspettarci, sul palco, la donna affacciata al balcone come una qualsivoglia palpitante e sofferente Giulietta, gli uomini in basso, prima distanti, poi sempre più vicini, a un palmo di naso, pronti a toccarsi. Più in alto ancora, in questa spoglia scenografia fatta di sbarre di ferro e luci stroboscopiche, apparirà poi un personaggio muto, ma musicante: piatti da dj, chitarra, maracas.

È questo dettaglio a incorniciare e appunto definire una rappresentazione che sarà molto diversa da uno spettacolo classico: la musica, più moderna che mai: musica elettronica che accompagna versi e rime originali dei personaggi: in loro c’è anche poesia, ma soprattutto rap, linguaggio contemporaneo dei cirano moderni. Cirano, scuro e polemico, attacca Cristiano, stupido e bello, in gergo hip-hop la chiameremmo battle; Cirano insulta Cristiano, e questo è proprio un dissing, spesso rivolto anche agli spettatori, tra cui il malcapitato critico che entra a scrocco e nessuno ama, eppure è possibile l’interazione, con gli attori che camminano spavaldi in platea: il pubblico risponde per le rime al naso per caso, un caos di parole, che a volte deraglia, a volte tocca. Rossana guarda e ascolta, a tratti muta, in secondo piano, mentre i due si alleano e diventano amici, tramando alle sue spalle come se la donna non avesse facoltà di scelta, semplice figura su cui scaricare volgarmente i propri umori. Eppure è lei l’unica viva qui, sono tutti morti, lo vediamo proprio nella prima scena, è lei che è rimasta ad amare, e soffrire, per un amore che non muore, su un vertiginoso balcone da cui non si può più scendere. 

Rap e musica sono naturalmente l’originalità di questo spettacolo, potente e interessante è il testo riscritto, ma il tutto è forza e allo stesso tempo debolezza, soprattutto perché gli attori non sono rapper, molto bravi quando sono attori certo, ma non rapper: cosa succederebbe se si affidasse questo testo a musicisti professionisti, in una sala da concerto? Anche la musica appare infatti poco incisiva, a volte, e poco profonda, quasi fosse una semplice e piatta base lì dove dovrebbe essere più impetuosa ed energica. Sul coraggio della forma di questo spettacolo è giusto e lungimirante fare una scommessa, ma sperando che possa poi crescere nel tempo, in nuovi spazi, con nuove energie e sostanze. 

Cirano deve morire
adattamento del Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand
di Leonardo Manzan, Rocco Placidi
con Paola Giannini, Alessandro Bay Rossi, Giusto Cucchiarini
regia Leonardo Manzan
musiche originali di Franco Visioli e Alessandro Levrero
eseguite dal vivo da Filippo Lilli
fonico Valerio Massi
luci Simone De Angelis eseguite da Giuseppe Incurvati
scene Giuseppe Stellato
costumi Graziella Pepe
foto di scena Filippo Manzini
produzione de La Biennale di Venezia nell’ambito del progetto Biennale College Teatro – Registi Under 30 con la direzione artistica di Antonio Latella
produzione nuovo allestimento 2022 La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello, Elledieffe, Fondazione Teatro della Toscana

corvi.

12 marzo 2024 § Lascia un commento

«Non si tratta di un parlamento, né di un processo. Il corvo nel mezzo del campo è un narratore. Racconta a tutti gli altri la sua storia e quando finisce… scopre se agli altri corvi è piaciuta o no».
(Neil Gaiman, da Sandman – Favole e Riflessi)

Immaginate che il teatro sia un campo, camminate per questo campo e improvvisamente vi ritrovate davanti quattro corvi meccanici  – quelli veri si sono già estinti? – che prima vi raccontano di quanto poco manchi all’apocalisse ecologica dove non ci sarà un altro giorno e poi vi mettono sotto processo: cosa fareste, vi piacerebbe? Più o meno è questo che accade – con tanto di arringa finale – nello spettacolo di Marta Cuscunà, originariamente una serie pensata per il programma televisivo La fabbrica del mondo di Marco Paolini e Telmo Pievani trasmesso da Rai3: la televisione che finisce in teatro, che cosa curiosa: già questo invoglia a fare esperienza di questo Corvidae – Sguardi di Specie, spettacolo prodotto dal Piccolo Teatro di Milano e il CSS Teatro Stabile di Innovazione del Friuli Venezia Giulia, guidati dal MUSE – Museo delle Scienze di Trento che ha anche messo a disposizione della squadra artistica i suoi esperti: scienziati, biologi, paleontologi, ornitologi, esperti di divulgazione scientifica che hanno supportato la fase di ricerca e scrittura con spunti e approfondimenti.

Entrati in teatro, il sipario è già aperto e sul palco troneggia l’installazione scenica, progettata dalla scenografa Paola Villani, composta da quattro corvi meccanici manovrabili attraverso un sistema di joystick e cavi di freni di biciclette. Marta Cuscunà entra in scena tutta di nero vestita, novella marionettista cyber che darà voce – anzi voci – ai quattro corvi per un’oretta attraverso alcuni episodi già presentati nella trasmissione di cui sopra più altri nuovi, per un totale di dodici episodi – ognuno introdotto da un titolo a schermo e relativa sigla che da Quark sfocia in un glitch –  che a voler sintetizzare sono legati tra loro da un’unico macro-tema ecologico: ovvero quanto l’essere umano stia distruggendo il suo stesso habitat, unico animale a farlo, e di come – se – possa ancora porre rimedio a questa cosa. Lo spettacolo scorre liscio, tra percentuali, cifre e citazioni di studiosi come l’antropologa Anna Tsing, la biologa Lynn Margulis, il filosofo Bruno Latour e la filosofa Donna Haraway.

Dopo aver canzonato con sarcasmo il genere umano, e aver perfino immaginato in totale disincanto un mondo senza esseri umani, i corvi si rivolgeranno a noi stessi, qui seduti, in un comico e allo stesso amaro processo interattivo che ha luogo in questo teatro trasformato in un campo, probabilmente arido e assetato: siamo proprio sicuri di quello che stiamo facendo, non vogliamo cambiare, non vogliamo salvarci? Vogliamo davvero continuare a deridere (povera Greta Thunberg) e in alcuni casi addirittura ammazzare gli eco-attivisti, non dargli ascolto, continuare su questa strada che porta alla distruzione? Quanto è assurdo vivere in un mondo dove si crescono polli per consumarne solo qualche pezzo (Winston Churchill docet), quanto è assurdo vivere in un mondo dove si pensa di fermare l’innalzamento del mare con un muro (Donald Trump, chi altri?).  La bravissima Marta Cuscunà, leggera e profonda al tempo stesso, spinge alla riflessione su questi temi in uno spettacolo godibilissimo e divertente, nonostante appunto i temi trattati, adatto anche – e forse soprattutto – alle bambine e ai bambini, donne e uomini del domani che erediteranno questo malandato pianeta (dove incredibilmente, tra le altre cose, il calore cambia anche il sesso di certi animali). Non vediamo l’ora che trasmettano i prossimi episodi (dove alla fine però la Natura vince sempre, vedi quei mitici funghi immortali che si mangiano tutto ciò che c’è di sbagliato), uno di quei pochi casi in cui la televisione fa pure cose buone.

«La lungimiranza dei corvi funziona nel 90% dei casi».
(Nathias Osvath, zoologo)

[visto al Teatro Nuovo di Napoli, l’8/3/2024]

Etnorama – Cultura Per Nuovi Ecosistemi 
CSS – Teatro Stabile Di Innovazione Del Friuli Venezia Giulia 
MUSE – Museo Delle Scienze 
Piccolo Teatro Di Milano – Teatro d’Europa 
Tinaos
presentano

Corvidae 
Sguardi di specie 
di e con Marta Cuscunà
originariamente scritto per La Fabbrica del Mondo di Marco Paolini e Telmo Pievani, RAI3

progettazione e realizzazione animatronica Paola Villani
assistente alla regia e direzione tecnica Marco Rogante
dramaturg Giacomo Raffaelli
scenografie video Massimo Racozzi
graphic design Carlotta Amantini
costumi Chiara Venturini
esecuzione dal vivo luci, audio e video Marco Rogante
consulenza scientifica MUSE – Museo Delle Scienze Di Trento
foto di scena Daniele Borghello

l’installazione dei corvi è parte della scena de Il canto della caduta
una co-produzione Centrale Fies, CSS – Teatro Stabile Di Innovazione Del Friuli Venezia Giulia, Teatro Stabile Di Torino, São Luiz Teatro Municipal – Lisbona

sponsor tecnici 
igus® innovazione con i tecnopolimeri, Marta s.r.l. – forniture per l’industria

cccp.

29 febbraio 2024 § Lascia un commento

non ho letto molto, ma a quanto pare stanno tutti parlando del concerto dei cccp a berlino. concerto dei cccp a cui andrei di corsa nel caso lo ripetessero qui in italia, va da sé, non foss’altro per vedere gli occhi da pazzo del buon giolindo ferretti che manda a quel paese i fan/atici che mandano a quel paese chicchessia. un’esperienza. c’è da dire comunque che ferretti l’ho visto un paio di volte coi csi/pgr, quando cantava di spalle con una treccia a coprirgli gli occhi perché gli faceva schifo il pubblico, e come dargli torto, talvolta: «siete un pubblico di mxxxx», diceva l’illuminato freak (ma anche: «questa gente è qui per la gente // ascolta musica superficialmente», napo docet). l’ho visto pure in solo, quando già scattava la risatina smart&cool di superiorità social a dire che andavi a un suo concerto, e lo rivedrei ancora. per chi vuole, qui c’è una mia vecchia recensione di un suo concerto, anno 2012. essere sempre capaci di distinguere la persona dall’artista: la penso ancora così, e la penserò sempre così. poi, a ciascuno il suo. in pace.

“non sono come tu mi vuoi”

regine.

8 dicembre 2023 § Lascia un commento

«Nel trovarci di fronte queste due gigantesche figure, non possiamo non chiederci quanto e come la donna abbia dovuto interiorizzare certi meccanismi maschili della gestione del potere. […] Chi farà Maria e chi Elisabetta? Immagino un momento rituale iniziale, una vestizione che sarà un grande prologo, catartico, da fare assieme al pubblico. Le due interpreti sapranno solo all’ultimo minuto quale personaggio dovranno incarnare. Un gioco di ruoli virtuosistico per svelare come in fondo i due opposti siano la stessa cosa, quanto questa cruenta dualità non sia altro che un riflesso dell’Uguale. Il contraltare di Maria diventa così Elisabetta che incarna tutte le modalità maschili per regnare e sopravvivere. Alla base del mio teatro c’è il rapporto con l’armonia al servizio della poesia di monteverdiana memoria. La parola parlata e la parola intonata saranno sostenute sempre da una ricerca sonora che parte dalla voce delle attrici stesse».
(Davide Livermore, regista)

Tragedia composta da Friedrich Schiller alla fine del ‘700, lo spettacolo messo in scena da Davide Livermore racconta gli ultimi giorni di vita della regina di Scozia, Maria Stuarda appunto, incarcerata dalla cugina Elisabetta I per le sue pretese (il)legittime al trono d’Inghilterra. Tutta la messa in scena è incentrata sul conflitto interiore di Elisabetta, indecisa sulla condanna a morte della cugina Maria, e la relativa attesa in carcere di quest’ultima che spera fino all’ultimo in una grazia che troverà infine solo nella morte. Il tutto per quasi tre ore di spettacolo fondato su intricati intrighi d’amore/sesso, potere/soldi e parole/parole/parole. 

Nelle note di scena si parla di Netflix e Games Of Thrones ma, considerati gli intrecci amorosi che molto spesso sottostanno all’azione, si potrebbe parlare anche di soap opera, e nello specifico di Beautiful (The Bold And The Beautiful, il Bello e l’Ardito, in originale) quando la vicenda si fa troppo, come dire, patetica. In scena ci sono sempre molti personaggi, ma le regine sono appunto solo due, Laura Marinoni ed Elisabetta Pozzi, bravissime non foss’altro che per un semplice (eppur potente) artificio scenico non sapranno che sorte gli toccherà fino a giusto qualche minuto prima dell’inizio: ancora sovrana o condannata a morte, vittima o carnefice? È sempre il destino feroce e spietato a decidere dell’esistenza precaria, appesa a un filo, di ognuno, e così avviene per Maria Stuarda: la decapitazione è solo frutto di caso e indecisione.

L’allestimento scenico di Lorenzo Russo Rainaldi ci mostra una prigione dove il colore dominante è il rosso del sangue e della passione, una prigione che poi diventa sala del trono a seconda di chi è l’ospite protagonista, a voler sottolineare ancora una volta quanto i destini di una persona possano essere intercambiabili, senza che niente sia scritto per sempre: è sempre e solo qualcosa al di là di noi a decidere cosa ne sarà di noi. Oltre alle due regine, personaggi che gravitano intorno a loro per amore o per sottomissione, e anche qui la differenza è così labile, d’altronde nell’acconciatura e trucco di certi personaggi sembra di vedere un David Bowie redivivo, e chi più di lui ha fatto del passaggio da un ruolo all’altro una regola, se non proprio un’ispirazione di vita (da rockstar)? Fluidità, come si dice oggi e ci conferma lo stesso regista tra le note: maschile e femminile non hanno più barriere, il mescolio è continuo, tiranne sono tutte e due le regine, chi condanna e chi è condannata. Chi uccide si nutre della vita di chi muore, non deve essere certo un caso se la messa in piega di Elisabetta ricorda il Dracula di Francis Ford Coppola e Maria è vestita perlopiù di rosso.

Anche solo un gioco di luci può cambiare una persona, luci perfette ed efficaci di Aldo Mantovani, a differenza della musica che, seppur evocativa e ben scritta da Mario Conte, può però risultare fastidiosa lì dove va a sovrapporsi un po’ troppo agli attori, soprattutto nel finale, andando a dominare con prepotenza sulle loro voci. Interessante l’utilizzo della chitarra suonata dal vivo da Giua che talvolta canta in dialogo con le attrici, ma anche qui non se ne  comprende fino in fondo l’uso e il perché, soprattutto nella scelta (fuori luogo) di una canzone troppo moderna come Nothing Else Matters dei Metallica: davvero c’è bisogno di una blanda cantante punk in scena, davvero c’è bisogno dell’onirico e ammiccante finale post-moderno? Allora meglio sarebbe stato un concerto, per scioccare la borghesia. Menzione speciale, poi, per gli sfarzosi costumi delle regine a firma Dolce&Gabbana, che rendono molto bene un certo kitsch/glamour regale da ricchi moderni.

Uno spettacolo che in sostanza proprio come la (post-)modernità non convince fino in fondo: erano davvero necessarie tre ore per raccontare questa storia? Questo allungamento, questa dilatazione, non fanno altro che rischiare la distrazione dello spettatore, sperduto tra mille parole e poca azione (lodevole però l’incipit più o meno cinematografico del secondo atto), andando a diluire le buone idee comunque presenti in uno strabordare di tempo: così come un anello può suggellare un matrimonio felice, troppi anelli possono andare a formare catene che non fanno altro che sequestrare e imprigionare anche noi, incolpevoli spettatori.

MARIA STUARDA
Visto al Teatro Mercadante di Napoli il 6 dicembre 2023.
di Friedrich Schiller
traduzione Carlo Sciaccaluga
regia Davide Liver
con Laura Marinoni, Elisabetta Pozzi, Gaia Aprea, Linda Gennari, Giancarlo Judica Cordiglia, Olivia Manescalchi, Sax Nicosia, Giua (chitarra e voce)
costumi regine Dolce & Gabbana
costumi Anna Missaglia
allestimento scenico Lorenzo Russo Rainaldi
musiche Mario Conte, Giua
direzione musicale Mario Conte
disegno luci Aldo Mantovani
regista assistente Mercedes Martini
foto di scena Masiar Pasquali
produzione Teatro Nazionale di Genova, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, CTB Centro Teatrale Bresciano

artificiale.

21 novembre 2023 § Lascia un commento

«Ho chiamato Carbon il mio gruppo perché mi interessa il pensiero non lineare, ricurvo e continuo tipico del carbonio, che si oppone alla logica, rigida e squadrata coscienza del silicio. Anche se ho la tendenza a essere piuttosto logico, cerco di avere sempre a portata di mano un’uscita di sicurezza, il jolly, l’intuizione. A un certo punto mi sono messo a studiare la musica composta da computer, ma ho concluso che i computer, a differenza degli esseri umani, non fanno musica molto interessante. Gli intelletti meccanici sono molto stupidi… si dovrebbe parlare di stupidità artificiale, piuttosto che di intelligenza artificiale… sono esseri binari, mentre noi non lo siamo: dentro di noi c’è sempre una casualità chimica. Alcune cose sono fatte solo per gli esseri umani, e la composizione musicale è una di queste. Immagino che il termine operativo per descrivere questo fatto sia “anima”». (Elliott Sharp, anni ’90)

saugo.

4 novembre 2023 § Lascia un commento

«Tutto si trasforma in nostalgia. Ogni cosa. Ogni ogni minima cosa anche andata storta, scarsa, sbolsa, rifilata già scaduta, taroccata, smorta. Tutto si trasforma in nostalgia. In paradiso perduto. In paradiso esistito. È esistito un paradiso, sempre, ogni momento. Ogni momento riceveva la benedizione. È esistito un paradiso sempre, ogni momento. È stato tutto un paradiso, sempre. Dietro le spalle era un paradiso, dappertutto, ogni momento. Un paradiso da indietreggiare. Indietreggiare. Indietreggiare. E c’era una volta un supermercato così bello, ma così bello, che tutti gli altri supermercati ne erano invidiosi. Lui, a differenza degli altri supermercati, aveva una cosa in più: lui aveva un mistero». (Alessandra Saugo)

Capita un dolce sabato di inizio settembre di capitare in un festival letterario di provincia, lì dove la parola provinciale però non assume significato negativo, anzi, ma si fa piuttosto dimensione piccola e accogliente, a misura d’uomo, umana. Capita di ascoltare quindi un grande scrittore leggere qualche riga da un libro, capita di ascoltarlo, e vederlo, commuoversi, proprio lì, proprio mentre legge quelle parole scritte su carta, povere parole distese per terra, nude, intime, potenti, sante. Fuori dal mondo, minuti d’incanto.

Il festival letterario si chiama FLiP (Festival della Letteratura Indipendente – Pomigliano d’Arco) e il grande scrittore che legge si chiama Antonio Moresco e per questo evento dobbiamo ringraziare Wojtek, illuminata e illuminante libreria e casa editrice dalla bellissima e curatissima grafica retrofuturista (opera di Antonio “Bobo” Corduas) che così si descrive sul proprio sito, spiegando chi è Wojtek: «Wojtek è il nome dell’orso bruno siriano adottato dalla XXII Compagnia di rifornimento dell’artiglieria nel Corpo polacco, durante i preparativi della battaglia di Cassino. Wojtek, simbolo della resistenza polacca durante la Seconda guerra mondiale, è allora il “guerriero sorridente”, attento ai nuovi lettori, ai lettori in cerca di tracce di esplorazione, consapevole dei modi e dei ritmi della narrazione, e pronto a spingersi persino nei luoghi in cui nessun libro è mai stato, intercettando visioni del e dal presente, con i linguaggi più diversi. Wojtek guarda anche agli ambienti delle avanguardie letterarie, le riviste online, perché è lì che spesso si annida lo sguardo più radicale. La casa editrice propone narrativa “non di genere” e intende tale formula in senso inclusivo e di apertura rispetto ad ambienti e a letterature inesplorate o solo parzialmente esplorate dall’editoria italiana, evitando dunque qualunque approccio mainstream. Wojtek vuole così intercettare – come davanti a una radio clandestina del secondo conflitto mondiale – le narrazioni capaci di decodificare, in piena libertà di concezione e realizzazione, quanto sta realmente accadendo a lato, dietro e oltre rappresentazioni rassicuranti e parole ovvie».

Il libro di cui si parla, ecco, è uno dei più recentemente pubblicati, Come una santa nuda, libro che viene pubblicato sei anni dopo la morte dell’autrice Alessandra Saugo, la cui voce viene definita da Moresco indomabile, intollerabile, inclassificabile, politicamente scorretta, scatenata, delicata, traumatizzata, comicodisperata, delirante, perturbante, urticante, unica. Miglior presentazione non potrebbe esserci, per un libro che procedendo per frammenti viene a formare molto più di un testamento spirituale, ma piuttosto un corpo pieno, unico, presente, immortale.

Ferocemente, Saugo scrive quello che potrebbe sembrare un malincomico diario, o un testamento triste, o ancora un appassionato memoir come tanto va di moda dire oggi, ma che diventa qualcosa di più nel momento in cui la scrittura da intima si fa universale, trascendendo dal mondo, ma senza inacidire, nonostante il male che sempre travolge la vita della protagonista. Ferocemente, Saugo descrive ciò che vede, e che sente, sia che si trovi nello studio del famoso psicologo dinamico, sia che si trovi davanti alla televisione con la solita sfilata di casi umani.

Ma forse che casi umani non lo siamo tutti, sembra dare a intendere l’autrice parlando con il suo amico John, nome effimero ed evanescente come a dire Caro diario, eppure chissà che non esista davvero, questo John, e non rientri tra i colleghi più volte tirati in ballo per nome e per cognome, e che non sempre ne escono bene in un mercato editoriale sempre più marcio (?). E poi ci sono le donne che vanno dallo psicologo dinamico per essere curate, ma per cosa non si capisce, queste donne a orologeria programmate per un’unica cosa, pare, col marito traditore sempre appostato dietro l’angolo. 

Sembra avercela con tutti, Alessandra Saugo, non salva nessuno, nemmeno la povera cantante morta alcolizzata, distrutta, sfruttata, forse giusto quell’altro cantante che la culla nella notte, eppure la voce di Alessandra è così distante da non poter far male, come se stesse osservando da lontano, delicatamente, ma soprattutto sofferente, consapevole del poco tempo rimasto, della brevità della vita a disposizione. Siamo così piccoli.

E allora guardare, ma non toccare, scrivere semmai, porre fine al delirio di una vita malata che sta per chiedere il conto, rifugiarsi in ciò che è rimasto e rimarrà nonostante il paradiso (?) perduto: la piccola e infinita bellezza di una figlia appena nata: ecco ciò che commuove nel mistero di una vita (una morte) incomprensibile: può esistere un regalo più grande che una madre, la madre, può fare? Parole, parole, parole. Nostalgia infinita.

«Alessandra è una scrittrice feroce, ma solo perché la sua musa è il trauma. In lei c’è ferocia perché c’è delicatezza: le due cose sono inseparabili. Proprio perché in lei c’è delicatezza, proprio per questo le cose che la toccano, la sfiorano, l’attraversano hanno l’impatto di un’ustione e di un trauma. Ma è proprio questo che le dona una seconda vista, che la rende più perspicace, più potente e inarresa, più scatenata e persino più baldanzosa e scherzosa. Le persone che hanno il pelo sullo stomaco, le persone che sanno bene come va il mondo e che sanno trarne vantaggio non hanno bisogno di essere feroci. Sono le persone inermi, sono le persone che hanno aspettative e aneliti e che subiscono delusione e trauma a registrare così il loro impatto col mondo e con il buio del mondo (“È per delicatezza che ho perduto la mia vita”, scrive Rimbaud.) E io ho potuto conoscere di persona quanto fosse grande la sua delicatezza, fin negli ultimi istanti della sua vita e nei messaggi che mi sono arrivati da lei persino dal suo letto di morte». (Antonio Moresco)

telecamera.

26 luglio 2023 § Lascia un commento

«Il testo di Koltès è molto denso, verboso, pieno di allusioni, immagini poetiche e intrecci complessi. L’autore sembra voler confondere lo spettatore piuttosto che aiutarlo a comprendere il conflitto. Non è immediatamente chiaro che l’oggetto del commercio sia la lussuria, argomento  proibito ma irresistibile. Questo spettacolo parla di perversione sessuale, di un desiderio nascosto che va punito. Vediamo due attori, ma c’è solo un personaggio e una sola scena. Siamo nel subconscio, nell’incubo di qualcuno che non è fisicamente in scena. Un personaggio che vive una terribile disarmonia interna perché ha capito che  il suo desiderio sessuale è di natura criminale. Ma questa è la sua natura e non può combatterla. Vorrebbe ammetterlo a se stesso ma non può perché è spaventoso e pericoloso. Siamo di fronte a un uomo che lotta senza sosta contro se stesso. Lo spettacolo è una proiezione della sua coscienza, un incubo in cui cerca di venire a patti con se stesso. Per questo motivo si presenta con questi due personaggi, il venditore e il compratore. Due entità in lotta impegnate in un dialogo teso, emotivo, complicato. Il dialogo di una persona con i suoi desideri più segreti e le paure più nascoste. È una storia di umana complessità, che si confronta con un mondo dove la complessità è qualcosa di indesiderato, inappropriato, quasi osceno. Un mondo che crea una disarmonia interiore che sta uccidendo il personaggio dall’interno, come una malattia letale. Più si va avanti, più si capisce il senso della storia. Gli attori cambieranno ruolo durante la rappresentazione. Lo  spettatore a poco a poco si renderà conto che si tratta di un monologo interiore di una persona che si scompone in un dialogo, l’ultimo dialogo prima della tragedia».
(Timofey Kulyabin, regista)

Ci sono due modi per spiegarsi quello che si è visto, da un punto di vista micro potremmo dire che si tratta di una classica relazione sentimentale dove c’è chi trionfa e chi soccombe, ma se poi vogliamo passare a un punto di vista macro potremmo dire che si tratta di un’allegoria del Capitalismo e del suo relativo collasso su se stesso, dove pure qui c’è chi trionfa e chi soccombe, anche se guardiamo i due protagonisti con occhio diverso, dato il loro nome identificativo: compratore e venditore. Ma davvero c’è chi trionfa e chi soccombe, davvero è così? I due attori cambiano spesso tono e atteggiamento, si scambiano il ruolo diventando l’opposto di come si sono presentati: e allora chi è che vince, chi è che perde? Chi la vittima, chi il carnefice?

Sono le parole del regista Timofey Kulyabin che ci danno quindi una soluzione, se soluzione può e/o deve  esserci, sottolineando il fatto che nonostante gli attori in scena siano due, il personaggio in realtà sia unico: i due attori sono vestiti uguali, non deve essere un caso, e infatti non lo è. Lo spettacolo si apre con una proiezione, vediamo un classico uomo in giacca e cravatta tornare a casa stanco e alienato dal lavoro, si spoglia nudo in un ambiente asettico, va in bagno, si fa una doccia, tenta una più o meno sofferta masturbazione, si ripiega su se stesso. Entrano poi i due attori, dei magnifici e potenti John Malkovich e Ingeborga Dapkunaite, ma lo schermo resterà fisso in alto, a inquadrare ogni minimo dettaglio del loro parlare, muoversi, esprimersi: viviamo nell’era della sorveglianza totale, le telecamere sono ovunque, ce le mettiamo pure in casa, la libertà barattata in cambio della sicurezza, per paura, paranoia o anche perversione.

Alcuni potrebbero lamentare che sembra di vedere un film, l’immagine  è troppo, ma ogni mezzo è lecito allo scopo lì dove si cerca una rappresentazione intensa e – appunto – totale. Lo schermo non è fine a se stesso, anzi – grazie a cinque videografi che operano perfettamente dal vivo – diventa esso stesso recita e messa in scena tramite effetti, bruciature, distorsioni, zoom che scavano nell’anima del personaggio quasi a volercelo mostrare dall’interno, anima e cervello: cosa stiamo vedendo, infatti, se non l’ingrandimento interiore di una persona? I due attori sono di spalle, ma ci/si guardano fisso negli occhi.

L’ambiente resta unico, ma più finestre si aprono per mostrarci il tormento interiore di quello che ormai, si è capito, non è solo o compratore o venditore, ma semplicemente tutte e due insieme, e quindi dopo l’armadio e il bagno, ecco comparire un ascensore per scendere sempre più giù nelle viscere dell’umano fino ad arrivare al bestiale, e poi una lavagna su cui si tenta di disegnare/capire se stessi, e infine il ricordo di un gioco sotto la neve, un momento di pace subito però cancellato dal gelo di una finestra che resterà buia e chiusa: ciò che non può essere confessato, l’indicibile, lo stupro, la carezza che si è fatta pugno. 

A un certo punto si intravede uno scarponcino chiaramente appartenente a un bambino, subito viene ricoperto da una giacca, il venditore lo mostra ancora, se sei qui a quest’ora della notte vuoi sicuramente qualcosa e io sono sicuro di potertela dare, il compratore lo nasconde di nuovo, no, non è vero… Ma ormai la violenza è presente, prepotente, non si può più scacciare, non è più occultabile, in un modo se ne dovrà uscire, liberarsi. È la fine, per un attimo cala il silenzio, ma scrosciante e subitaneo scatta subito l’applauso, per timore, tensione, sgomento: quando si imparerà, a restare in ascolto delle proprie emozioni? La superba bellezza di ciò che abbiamo appena visto non lascia molte speranze né scampo, ma lascia comunque tanta potenza introspettiva a chi è capace di trattenere l’applauso e restare nella solitudine dei campi di cotone quell’attimo in più, in profondità.

[foto di Andreas Simopoulos]

voragine.

30 giugno 2023 § Lascia un commento

gennaro marco duello e gianluca “dj cioppi” albrizio

23 gennaio 1996, 16.30 circa, sembra una vita fa e forse lo è, per alcuni sicuramente, così come per altri questa vita non è più: una voragine si apre al quadrivio di Secondigliano, 11 persone si perdono lì dentro e non ne usciranno più: da corpi si fanno anime, fantasmi amati che continueranno a vagare nella memoria di chi li ha conosciuti, o ha voluto poi conoscerli, per non dimenticare, per non dimenticarli.

Ecco se proprio esiste un peccato, in tutta questa brutta storia, oltre alla negligenza con cui si è lavorato, certo, se esiste un peccato questo è l’oblio: il dimenticare senza rispetto, senza che giustizia sia stata fatta: 27 anni sono passati ed è come se niente fosse successo, nessun colpevole per il processo, o peggio, un solo colpevole che è tornato poi a lavorare come se niente fosse.

È un libro appassionato, quello scritto da Gianluca Albrizio e Gennaro Marco Duello e pubblicato da Rogiosi Editore, California Milk Bar – La voragine di Secondigliano, titolo che viene dal bar distrutto dall’esplosione, bar dove il caffè è più amaro, come si ripete incessantemente nella colonna sonora del libro composta appositamente da Dj Cioppi (alias lo stesso Gianluca Albrizio) con la partecipazione di Sharon Amato alla voce e ascoltabile indipendentemente su tutte le piattaforme online, hip-hop incazzato ed electro-dub oscuro e malinconico che cercano di restituire multimedialmente ciò che gli autori all’epoca hanno vissuto attraverso uno sguardo bambino, un trauma difficile da dimenticare, ma un trauma sicuramente da non rimuovere: che la ferita si chiuda pure, ma che resti la cicatrice, affinché si ricordi per sempre quell’enorme luce bianca che campeggia in copertina del libro, una luce pulsante che sembra allargarsi sempre di più: cosa c’è rimasto, lì dentro?

Ricordare le 11 persone che non ci sono più è un dovere, persone i cui nomi vengono rispettosamente scanditi in apertura del disco, persone normali che si trovarono a essere lì in quell’attimo disgraziato in cui la terrà sprofondò e prese fuoco, non di certo una catastrofe naturale: la responsabilità qui è solo e tutta umana. Attraverso le voci di chi non c’è più gli autori lo ricordano benissimo: le crepe che continuavano a crepare i muri delle case, quella maledetta puzza di gas che non li faceva dormire da giorni, la paura che stava per succedere qualcosa di brutto, la rabbia di non essere ascoltati.

Tutto ciò che è raccontato in questo libro è realmente accaduto, ricostruito attraverso testimonianze dirette, interviste, dichiarazioni ufficiali, contributi audio e video, pubblicazioni sulla voragine e poi, appunto, ci sono i protagonisti, loro malgrado, di questa tragedia, le cui azioni e i cui pensieri sono frutto dell’immaginazione degli autori, e quanta profonda pietà c’è in questa invenzione. Lì dove la politica ha voluto dimenticare, senza che nemmeno un ricordo tangibile e dignitoso sia rimasto nella desolazione delle erbacce cresciute lì dove c’era vita, gli autori hanno voluto ricordare che queste 11 persone erano persone vere, reali: c’è chi si trovava a passare di lì per caso, chi si preparava ad inaugurare un nuovo pub, chi era bloccato nel traffico, chi era a casa sua, chi non ci voleva più lavorare in quella maledetta galleria, chi resterà una bambina per sempre, chi non sarà mai più ritrovata. 

È commovente questa ricostruzione empatica scritta dagli autori, commovente e compassionevole, insomma tutto l’opposto di quella che può essere una diretta fakebook del politico di turno fatta tanto per, un altro tassello che si aggiunge affinché il ricordo e la chiarezza  continuino a crescere e prosperare nel vuoto circostante di un sonno che genera mostri: come insegna il grande Felice Pignataro, contro tutto ciò non ci resta altro che svegliarsi e continuare a gridare. Buona lettura e buon ascolto.

confini.

23 giugno 2023 § Lascia un commento

È un libro importante quello pubblicato dalla Monitor Edizioni di Napoli, non per altro vincitore del Premio Micheluzzi / Nuove Strade per il Comicon 2023 come “migliore autoproduzione”, un volume che partendo da una parola apparentemente statica ma in realtà multiforme cerca di darci qualche punto di vista e/o visione nuova attraverso il tratto e lo sguardo di quattro autori giovanissimi. Confini è la parola scelta, Confini è il titolo del volume: sì. ma cos’è un confine?

La cosa più semplice da fare sarebbe chiederne il significato a un’intelligenza artificiale a caso, concetto che tanto di moda va quest’oggi, magari impostando i parametri che più ci aggradano, in modo che la risposta sia quanto più vicina possibile ai nostri “gusti”. Ma davvero c’è da fidarsi? Davvero né Kubrick né il cyberpunk ci hanno insegnato nulla? Come fare a fidarsi del giudizio di un’intelligenza artificiale, giudizio peraltro nato da chi questa intelligenza artificiale ha nutrito e programmato? Il risultato sarebbe troppo politically correct, o al contrario troppo schierato? Il problema non è l’intelligenza artificiale, il problema è chi non sa più cosa significhi essere e restare umani: comunicare è umano, davvero non sappiamo più farlo?Ripetiamo la domanda, allora, insieme: cos’è un confine?

andrea de franco, “sopralluogo sulla sp57”.

Confine è un qualcosa che divide una cosa dall’altra, questo il significato che subito mette in moto il cervello, concentrandosi fin troppo sulla divisione, piuttosto che la vicinanza: a pensarci bene non c’è niente di più vicino di quello che confina con casa nostra, no? Potremmo quindi dividere la parola a metà, con un po’ di poesia, con-fine: un fine insieme, un obiettivo comune? Cambiare un significato, guardare una parola da un altro punto di vista, magari lateralmente, cambiare un paradigma mentale: cambiare la nostra vita, il mondo, alfine.

mario damiano, “diario di campo”.

In questo volume troviamo almeno quattro punti di vista degni di nota, o anche linee, a ciascuno la sua: una linea disperata, una linea avvolgente, una linea sporca, una linea chiara. Questi giovani autori declinano la parola confine ognuno a suo modo, mostrandoci ciò che divide/unisce da un’altra angolazione, ma niente storie di fantasia qui è tutto vero. Andrea De Franco ci racconta di un terreno che è stato campo di concentramento e adesso non lo è più, ma certo non basta questo a dimenticare ciò che è stato, un passato che non può essere né nascosto né dimenticato, un campo di concentramento resta tale per sempre nonostante si svuoti, la rimozione è impossibile, quel campo avrà sempre i suoi confini. Mario Damiano sottolinea drammaticamente di quanto possano essere diverse le storie migranti, e di come anche un ragazzo straniero voglia solo sognare un futuro migliore, qui il confine è quello dato da un campo di pomodori in cui si muore di fatica o peggio, un confine che può essere superato solo attraverso una storia, ma se non ci si sente protagonisti della propria storia cosa si fa, il rischio è altissimo. Federica Ferraro ci riporta indietro nel tempo a quando un quartiere era zona di guerra, e di come i residui di questo possano uccidere ancora, anche in questa storia il confine è preciso, c’è un muro che divide spazi ed esistenze, sembra sia diventato invisibile, eppure è ancora capace di fare quello per cui era stato tirato su. Adriana Marineo si tuffa in un mondo onirico, canino o umano non importa specificarlo, qui il confine è appunto tra più mondi, umano-animale-vegetale, onirico-reale, un confine che però si fa sempre più labile fino ad arrivare a sciogliersi su se stesso, quasi fosse una speranza dove ognuno capisce e diventa l’altro, in un’ispirata e aspirata fusione poetica. 

federica ferraro, “il muro”.

«Queste quattro storie sono state generate da intelligenze non artificiali. Le autrici e gli autori coinvolti sono tutti meridionali e non è un caso se le loro storie ci parlano di un territorio abbandonato e di soprusi di vario genere. Gli argomenti trattati sono spesso scomodi. Rimossi, dimenticati, nascosti. Sono storie di confini dal confine. Prima del buio, consoliamoci con queste storie che non hanno paura di mettere il dito dove fa male e ci spingono a non dimenticare», così finisce la presentazione del curatore Miguel Angel Valdivia, e così piace finire anche a noi. Buona lettura.

adriana marineo, “linoleum”.

persona.

15 giugno 2023 § Lascia un commento

«Nel mio personale arsenale delle apparizioni, che uso nei vari processi pedagogici, nella mia geografia sentimentale, questo mito popolare costituisce un centro più volte attraversato e al quale ora ritorno con una nuova chiave di lettura. L’idea è riemersa all’interno del ciclo Vocazione e Ricerca della Scuola Elementare del Teatro, il laboratorio con accesso prioritario a fasce disagiate economicamente e socialmente e particolarmente attento alla disabilità intellettiva e fisica. Il lavoro di ridefinizione delle identità attraverso l’uso dello strumento dell’Arte, la centralità della persona e delle sue fragilità, si sono sostanziati lo scorso anno in una serie di studi ispirati alla figura del burattino Pinocchio che ci è sembrato così fratello dei ragazzi con sindrome di Down o di autismo, o Williams, o Asperger che compongono l’articolato gruppo di lavoro. Come pure appartiene alla stessa famiglia di quei ragazzi ‘miracolosamente’ sottratti al crimine o in pieno percorso di ridefinizione della propria esistenza all’uscita del carcere che non hanno potuto(?), saputo(?) evitare. Pinocchio e l’intera compagine simbolica della favola sembrano incarnare tutte le caratteristiche di un’adolescenza incomprensibile, incompresa, nel cui tormento a tratti gioiosamente furioso, a tratti cupo e irredimibile, si specchia una società di adulti da macchietta o in rovina: in forme più o meno ambigue, corruttori. Pinocchio è il diverso, è tutti i diversi, con la loro carica anarchica e dirompente ma è pure il legno ‘stuprato’ come diceva Bene, dalla perversione ‘dell’immagine e somiglianza’ aggiungo io di un Padre, di tutta una Società normalizzante per la quale il concetto di Persona ha canoni rigidi, di convenzione, borghesi. Ecco allora che si è una non–persona fino a quando non si scende a patti, non si diventa ‘buoni’, non si cancella ogni minima traccia di una ‘eccezionalità’, non si diventa uguali. O non-persona, e quindi pezzo di legno, o burattino buono per un po’ di spettacolo, o animale (cane da guardia, asino); in ogni caso una mostruosità. Pinocchio, in una prima stesura, finiva con l’impiccagione del burattino, come a segnare una impossibilità di uscita, poi corretta da Collodi con una definitiva, conciliante, benevola trasformazione in bambino, in Persona. Sì, ma cos’è una Persona?». (Davide Iodice, autore e regista)

Nel titolo dello spettacolo portato in scena da Davide Iodice e gli allievi della Scuola Elementare Del Teatro – Conservatorio Popolare Per Le Arti Della Scena più che il richiamo al burattino collodiano, ormai personaggio archetipico presente in ogni luogo e in ogni tempo, l’importante è la parte interrogativa che ci/si chiede che cos’è una persona, per poi rispondersi di certo non definitivamente con una sorta di didascalia a margine di quello che si porta e vede in scena: Studio 1.

Giunta al suo nono anno di attività, la Scuola nasce dall’incontro del presidente Giuseppe Cafarella della FORGAT ODV e il regista Davide Iodice negli spazi dell’Ex-Asilo Filangieri come progetto di pedagogia sociale in grado di offrire opportunità di inclusione e di crescita personale a fasce svantaggiate. Si tratta di un progetto a partecipazione gratuita, un’opportunità di ricerca e formazione permanente, un laboratorio produttivo, una rete di cooperazione rivolta soprattutto a chi soffre di disagio economico e sociale e/o presenta disabilità fisica e intellettiva. Il progetto è sostenuto dal Teatro Nazionale di Napoli per la stagione 2022-2023, insieme con il Teatro Trianon Viviani, l’Asilo – Comunità di Lavoratori e Lavoratrici dell’Arte, della Cultura e dello Spettacolo e FORGAT ODV

Il progetto Pinocchio/Che cos’è una persona? Studio 1 nasce l’anno scorso nella passata edizione del festival, quest’anno viene appunto presentato un primo studio scenico che apre pubblicamente il lavoro di laboratorio che troverà compimento l’inverno prossimo; in scena troviamo alcuni allievi del Conservatorio Popolare, insieme ai loro genitori:  Giorgio Albero, Patrizia Albero, Gaetano Balzano, Danilo Blaquier, Federico Caccese, Stefano Cocifoglia, Giuseppe De Cesare, Simona De Cesare, Gianluca De Stefano, Paola Delli Paoli, Chiara di Sarno, Aliù Fofana, Cynthia Fiumanò, Vincenzo Iaquinangelo, Marino Mazzei, Serena Mazzei, Giuseppina Oliva, Ariele Pone, Tommaso Renzuto Iodice, Giovanna Silvestri, Jurij Tognaccini, Renato Tognaccini. L’ideazione e la drammaturgia sono di Davide Iodice, il training e gli studi sul movimento di Chiara Alborino e Lia Gusein-Zadé, pedagogia e collaborazione al processo creativo di Monica Palomby ed Eleonora Ricciardi, i tutor Danilo Blaquier – Veronica D’Elia – Diario Di Bordo – Mara Merullo – Antonio Senese, le musiche della Fata Turchina sono di Gianluigi Trovesi e Gianni Coscia, i versi di Giovanna Silvestri.  

Voi siete il mio sogno, io sogno voi, dice a un certo punto un giovane uomo seduto al centro della scena, illuminato da un fascio di luce che lo rende finalmente protagonista non solo della sua vita, ma soprattutto della nostra: Guardate adesso che faccio, mi alzo, e poi mi siedo, lo rifaccio di nuovo, ecco, mi alzo e mi siedo. Quello che può sembrare un gesto normalissimo – lo è? –  in realtà può presentare una difficoltà insormontabile per chi non è come noi: ma chi lo dice che in questo mondo dobbiamo essere tutti uguali? La normalità non esiste.

La particolarità di questa messa in scena sta nel metterci davanti a uno specchio che più che rimandarci la nostra immagine ci mostra chi ci cammina di fianco senza che ce ne accorgiamo, tanti piccoli pinocchi schiacciati ognuno dalla propria croce – qui indicativamente sopportata dal Grillo Parlante – che molto spesso è una storia che viene a coincidere con una diagnosi, pinocchi che però non è detto vogliano per forza diventare “bambini veri” ma semplicemente vogliono vivere la propria vita così come sono: ecco quindi che il naso allungato diventa motivo d’orgoglio, è lo stesso genitore a rivendicarlo mettendolo sul viso del proprio figlio con una carezza in una delle scene più toccanti dello spettacolo, lì dove mano nella mano genitore (o accompagnatore) e figlio/a si presentano a noi: accettate queste persone, così come le abbiamo accettate noi.

Commuove questo spettacolo, e tanto, perché davanti a noi c’è la vita vera che scorre, sincera e sofferta, ma pur sempre vita. Viva il teatro, viva la musica, viva l’amore, viva la vita, si urla in modo catartico alla fine… e dopo? Il problema più pressante è sempre quello del dopo: cosa succederà dopo? Dopo si va a fare una passeggiata, dopo si gioca un po’, dopo si fa una corsa in motorino, dopo si cerca un provino, dopo si ama, dopo si vive… e dopo chi lo sa, si sogna, si desidera: un mondo senza barriere architettoniche, una casa comune, un po’ – anzi tanto – rispetto. La musica scorre dolce, la Scuola Elementare del Teatro raccoglie i meritati applausi, siamo tutti un po’ commossi stasera. Per un’ora abbiamo dimenticato le nostre stupide preoccupazioni, e ci siamo accorti dell’altro: non è cosa da poco. Grazie a Davide Iodice, e grazie alla scuola elementare tutta.  

[foto di Salvatore Pastore]

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